8 maggio 2022 Giovanni 10, 27-30

Giovanni Nicoli | 8 Maggio 2022

Giovanni 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.

Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».

Se ci fermiamo a pensare può sbocciare una domanda: cosa vuol dire “buon pastore”? Mi pare che oggi, sia un termine incomprensibile.

Sentendo questa parola ci viene in mente un tizio, poco più che un barbone, spesso maleodorante, con a tracolla un ombrello e una bisaccia, magari, al giorno d’oggi, con una jeep o un camper vicini. È una figura di altri tempi con la quale noi non scambieremmo mai una parola. Stiamo lontani da questa gente perchè poco affidabile e tutta annebbiata in una realtà che non c’è, non è roba nostra quotidiana.

Un primitivo così, secondo i nostri giudizi, che cosa avrebbe da dirci? Forse per gli antichi le cose andavano diversamente: anche i re erano guardati come “pastori di popoli”. Senza pastore una pecora è persa. È preda dei lupi, umani oltre che animali. In cerca di acqua e di pascoli introvabili, è solo oggetto di mire interessate da parte di gente affamata.

Non ha nulla per difendersi: la vita della pecora dipende dal pastore. Che Gesù si definisca il “pastore buono” tradotto anche come il “pastore bello”, non è una cosa da poco. Lui attribuisce a sé un’immagine classica del Messia: si definisce il Cristo.

Ma Lui cosa è venuto a fare sulla terra? È venuto a dare la vita! Vita eterna, vita vera, vita piena, vita che partecipa della vita del Padre con cui Lui è una cosa sola!

Questo è un modo di essere che Lui porterà avanti come dinamica vitale, che sfida ogni forza contraria. Certamente, non la mollerà mai questa dinamica di essere.

A Lui niente e nessuno potrà impedire di essere pastore. Lui, predicatore errante di Galilea, dona la propria vita per le proprie pecore: coloro che ascoltano la sua voce. Per non perdersi bisogna ascoltare la voce di Gesù Parola. Come in ogni relazione si impara, con il tempo, ad ascoltare e a riconoscere la voce dell’altro. La voce è un segno di presenza che rende presente nella mente e nel cuore, l’altro anche quando è assente. La Parola di Dio è la voce con cui lui ci raggiunge, è la voce del pastore che raduna il suo gregge, perché lo conosce profondamente e se ne prende cura.

Stiamo vivendo il periodo Pasquale. Con la crocifissione non è stato ucciso il progetto del Padre. Il suo desiderio di far fiorire la gioia sulla terra non viene meno. Gesù rimane il Cristo, l’Unto che compie sulla terra l’impossibile. Ciò che sembra impossibile è il suo desiderio di riportare l’uomo alla sua umanità. È una missione che Gesù, il buon pastore, non lascia neanche davanti al dono, al perdere la propria vita per amore. Non ciò che protegge il mio interesse, sembra essere al centro della sua essenza, quanto invece il dove e il come posso donare la mia vita.

Gesù, il Giusto, soffre. Gesù il Giusto, come ogni giusto anche fra di noi, non vive la sofferenza come luogo di sconfitta della bontà e della tenerezza.

Questa è via grazie alla quale il Padre manifesta il suo amore. Un amore reso impotente dalla libertà dei suoi figli.

Sarebbe importante cogliere il vero problema che è sapere da chi l’uomo del terzo millennio si aspetti vita. Chiederci che razza di vita noi ci aspettiamo, sarebbe cosa sana e bella. Da questa domanda noi non possiamo chiamarci fuori. Il chiamarci fuori è un moto di insanità e di non umanità, tanto meno di amore del Padre.

Ma a noi: interessa la vita eterna? Riusciamo ancora a gioire nella piccolezza di ogni umanità e di ogni celebrazione liturgica? Noi Gesù lo sentiamo uno di noi? Viviamo la nostra dimensione e dinamica con tutti gli uomini della terra cogliendo l’essenziale del vivere che è l’amore?

Noi che aspettiamo vita dai muri che innalziamo per separarci da quanti ci disturbano, riusciamo a cogliere quanto il nostro agire sia finalizzato a rendere gli altri disperati e separati da noi? Noi spesso viviamo una dinamica di rapina dove vogliamo divenire padroni di ogni cosa, disprezzando magari ogni identità.

Noi aspettiamo vita dalle armi che fabbrichiamo, l’importante è che siano sempre più sofisticate e micidiali. Noi aspettiamo tutto ciò convinti di essere superiori agli altri, magari credendo di essere migliori. Proprio perché tali noi crediamo di avere il diritto di disporre della vita e della morte dei deboli. Loro, sono coloro che sono inaffidabili e che non valgono nulla, per cui…! Magari siamo legalisti o religiosi per cui possiamo darci da fare secondo norme e leggi: ma in realtà siamo immorali.

Sono i soldi, il nostro potere di acquisto, il nostro successo. A noi non interessa più vivere. Noi siamo troppo schiavi del nostro divenire deboli. A noi sembra di essere dipendenti da chi dovrebbe trattarci con misericordia, gratuita e tenerezza, cosa che sembra non esistere più.

Che la nostra vita sia umana non più affacciata sull’orrore, sembra cosa persa. Sembra che dopo la morte non vi sia più un “oltre”. Tutto sembra ininfluente. È roba che non si può quotare in borsa. È cosa per questo insignificante.

Pasqua dopo Pasqua sembra che la vita abbia sempre meno senso. Nei fatti il mercato è il nostro pastore, il nostro dio-denaro. L’uomo non è più il pastore dell’essere ma pastore delle macchine, della sua disumanizzazione.

Eppure qualcosa dovrebbe e potrebbe cambiare. Dalla Pasqua, dalla risurrezione, dovrebbe scaturire una nuova visione di vita, nuova visione di cielo e di terra.

Traversare nel sangue la grande fatica e incomprensione di ogni giorno, non è cosa che dice che siamo finiti. Di loro è pieno il cielo.

La terra può essere buia, il dolore può rendere angosciante ed assurda la nostra vita. La prepotenza ci può portare a maledire di essere nati. Tuttavia, il Risorto, con un lembo di cielo invisibile, ci dice che l’ultima parola non è la morte, ma la vita.

Tutto può ricominciare e l’uomo, anche se non perfetto e costante la presenza del pastore, può riconquistare una palma che ci renda degni di stare in eterno al cospetto del Padre e di ogni figlio.

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