A confronto con la morte per ritrovare il gusto della vita

da | 11 Giugno 2020 | Oggi nella Chiesa

A confronto con la morte per ritrovare il gusto della vita

Articolo di Anonimo Bergamasco

È morto da solo; senza un bacio, senza una carezza, senza una benedizione… una volta si diceva: solo come un cane.
Anni fa mi trovavo nella chiesa del cimitero di Lambrate a Milano per celebrare il funerale della sorella di un missionario. La prima raccomandazione che mi è stata rivolta è questa: hai a disposizione 15 minuti (al massimo 20) perché poi sono già prenotati altri, uno ogni 15 minuti. Infatti all’uscita della chiesa ho trovato altre quattro bare in fila, in attesa del loro turno. Vicino ad ogni bara quattro o cinque persone, non di più… I parenti stretti. Entravano, una preghiera veloce, una spruzzata di acqua benedetta, e poi via… sotto un altro, come in una catena di montaggio.
Nelle grandi città la salma non passa più dalla parrocchia (dalla comunità), non passa più neanche dalla famiglia; va diritta dall’obitorio dell’ospedale al cimitero. Nel grande condominio non sappiamo più dove metterla, darebbe fastidio a troppa gente; e poi non si può interrompere il traffico, non si può disturbare la vita…

La società contemporanea ha rimosso la morte, l’ha sottratta al flusso della vita. Non può negarla ma cerca di nasconderla, la rende intima, come dire, privata. Essa esiste solo per chi muore e, ben che vada, per pochi intimi.

Mi è ritornato alla mente questo episodio di fronte alle immagini trasmesse in questi mesi; immagini che potrebbero avere per titolo “la morte al tempo del coronavirus”: file di bare in attesa di una sepoltura, fosse comuni con dentro bare accatastate l’una sull’altra, funerali proibiti o ridotti a poco più di un fugace saluto…
Lo hanno portato in ospedale, non lo abbiamo più visto e ci hanno restituito solo le ceneri.

Non so se siete mai stati nei reparti destinati agli ammalati terminali; lì si coglie veramente il senso della solitudine; lì si capisce come non esiste nessuna medicina che possa sostituire la presenza di un amico.
Quante volte si sente dire: “Ci hanno avvisato che stava per morire; ci siamo precipitati, ma siamo arrivati troppo tardi… è morto da solo.”
Un episodio della vita di madre Teresa di Calcutta. Stava assistendo un moribondo in compagnia di una novizia, quando venne chiamata altrove per una emergenza. Mentre si allontanava la novizia le chiese di andare con lei perché tanto lì non c’era più niente da fare. Madre Teresa le rispose: “No! Tu resta qui. Amalo, amalo più che puoi.”

Oggi si usa tanto parlare della solitudine del morente, una volta non era così.
È noto che si moriva in casa. In casa si svolgeva per intero il decorso della malattia, lì si compiva l’evento della morte sotto gli occhi di tutti, dinnanzi alla famiglia riunita, allargata alla cerchia dei parenti e degli amici. Le comunità erano abbastanza ristrette perché la storia di un sofferente non divenisse patrimonio comune. La comunità nel suo complesso viveva la morte di un qualunque suo membro come trauma collettivo, come privazione di un suo elemento, di una sua parte viva. Sofferenza e morte lungi dall’essere tenute segrete, venivano partecipate.
Voi mi direte: ma anche oggi si assiste alla morte. È vero; anzi direi che mai come ai nostri giorni le immagini di morte attraversano tutte le ore della nostra vita e si fanno presenti in “tempo reale” attraverso i vari mezzi di comunicazione: giornali, notiziari, news, show televisivi, social, … dove dolore e morte tengono banco spesso, purtroppo, solo per innalzare l’indice di ascolto. Perché è vero: la morte fa spettacolo!
I cadaveri platealmente esposti, la strage terroristica, la guerra etnica, e così via…
In alcuni paesi, dove è ancora in vigore la pena di morte, la gente è obbligata ad assistere all’esecuzione perché così prende paura e impara. O in altri paesi (come negli Stati Uniti d’America) dove solo ad alcuni è riservato il diritto (quasi fosse un privilegio) di assistere all’esecuzione del condannato a morte per ritrovare fiducia nella giustizia umana e assaporare il gusto della vendetta
Anche ai nostri giorni si costruiscono gli “archi di trionfo” dove nella pietra veniva scolpita l’immagine dell’imperatore che mostrava il cadavere del nemico in segno di vittoria.
Cambiano gli strumenti. Si è passati dalla spada alla bomba atomica. Cambiano gli imperatori che oggi preferiscono rimanere nascosti come dei burattinai a gestire le banche, le multinazionali, l’industria delle armi, la globalizzazione… Ma la sostanza non cambia.
Sfogliando i giornali, guardando i telegiornali, ascoltando il suono delle sirene … si ha l’impressione di trovarsi coinvolti nella “danza della morte” o nel “trionfo della morte”. Che lo vogliamo o no ci siamo dentro. Ma in quale ruolo e da che parte stiamo?

Se siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo riconoscere che queste morti, queste persone (perché c’è sempre una “persona” che muore) non ci interessano più di tanto. Ci lasciamo prendere dall’emozione, dall’indignazione, forse ci scappa anche qualche lacrima, e poi ricominciamo tutto come prima. Una notizia scaccia l’altra, come su un nastro trasportatore, senza avere il tempo di entrarci dentro, senza sconvolgere o mettere in discussione la nostra vita.

Anche quando il dolore e la morte ci riguardano più da vicino perché colpiscono la nostra persona o i nostri cari, preferiamo cederne la gestione alla medicina, alla scienza e alla tecnica, pensando che queste da sole siano in grado di gestirla meglio, rinunciando alla umana pietà. E quando parlo dell’umana pietà non mi riferisco al patetico o al sentimentale, ma alla capacità di assumere su noi stessi il dolore degli altri. Parlo del saper condividere fino in fondo.

È questo il significato dell’incarnazione di Gesù: Gesù non è venuto soltanto a farci visita, a farci gli auguri e a portarci il regalo; ma si è fatto uno di noi, talmente simile a noi da condividere perfino la morte. E come noi ha provato l’angoscia della morte, la solitudine di fronte alla morte. L’abbandono degli amici, degli apostoli, perfino l’abbandono del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!”.

“L’esperienza cruciale nella notte del Getsemani per Gesù è quella dell’angoscia di morte. Essa non appare per la prima volta sulla croce, ma accade innanzitutto nella solitudine del Getsemani. In questa notte vediamo il corpo di Gesù come non l’abbiamo mai visto. È un corpo che trema, piange, suda sangue, è un corpo schiacciato dall’angoscia. “La mia anima è triste fino alla morte.” (Mt 26,38).
Come per ogni uomo quando una prova appare troppo grande, la prima invocazione umanissima che egli rivolge ai suoi: “Restate qui e vegliate con me.” (Mt 26,38). Ha bisogno di non sentirsi solo nella notte, chiede di tenere vicino a sé i più cari. Sente che non ha le forze sufficienti per portare da solo il peso della morte che arriva. Domanda, invoca, richiede la presenza dei suoi compagni, chiede ai suoi di condividere la veglia, di non essere lasciato solo. Gesù non chiede ai discepoli di salvarlo dal suo destino, di trovare una via di fuga, non chiede loro di immolarsi in sua difesa. Basterebbe che non lo lasciassero solo a sopportare il peso di quella notte. La sua richiesta è minima, ma viene egualmente evasa. Alzatosi dopo essersi immerso nel suo dolore, Gesù si accorge che i discepoli lo hanno lasciato solo e si sono placidamente addormentati. Non hanno saputo resistere al sonno proprio nel momento in cui il loro maestro chiede di restare con lui, di non abbandonarlo. La sua constatazione è amara: “Così non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?” (Mt 26,40)
Nella notte del Getsemani non c’è più nessuno attorno a lui. Egli deve fare l’esperienza dell’assenza e della solitudine proprio nel momento in cui è lui che si trova non più ad accogliere la domanda di aiuto di persone bisognose, ma a domandare aiuto.” (Massimo Recalcati, “La notte del Getsemani”)

Ma Gesù non è fuggito; ha fatto della morte la prova più grande dell’amore. Aveva detto: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13) e l’evangelista, introducendo il racconto dell’ultima cena dice: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo lì amò sino alla fine” (Gv 13,1). Con la sua croce Gesù non solo ci ha insegnato a dare un senso alla nostra morte, ma ci ha presentato un progetto di vita.
Forse anche a voi qualche volta è stato chiesto: “come ti piacerebbe morire?” E di fronte a certe morti abbiamo detto: “Che brutta morte; speriamo di non morire così”. E di fronte ad altre: “Che bella morte, anche a me piacerebbe morire così”.
Sta di fatto che nessuno ha mai potuto raccontarci la sua morte, quello che ha veramente vissuto in quel momento. E neanche noi potremo raccontarla agli altri. È la cosa più intima e più segreta che porteremo con noi.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso; coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi“ (Lc 16,26).
Anche la nostra morte, come quella di Gesù, ha un senso; lo stesso senso che abbiamo saputo dare alla nostra vita.
Se non siamo capaci di amare, siamo già morti mentre viviamo, e la solitudine del morire altro non è che l’estremo sigillo impresso alla solitudine della nostra vita. Dove non c’è relazione non c’è vita. E se non abbiamo trovato qualcuno per cui morire (a cui donare) significa che la nostra vita non ha ancora trovato un senso. Il segreto della riuscita della nostra vita non sta nel ricevere, ma nel dare, nel vivere per qualcuno: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Del resto, che cosa rimarrà di noi dopo la morte? Potrà sembrare strano, ma è così: rimarrà solo quello che abbiamo dato; e se avremo dato vita, la vita continuerà.

Il profeta Isaia annuncia così la venuta del Messia: “Ecco il mio servo (…) non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is 42,3). È l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’umanità: Dio non butta mai via nessuno, non pronuncia mai su nessuno la parola “fine”. L’ultima parola non è mai la parola morte, l’ultima parola si chiama vita, si chiama risurrezione.
Noi invece abbiamo inventato la “rottamazione”, il fine corsa, il “macero”. Finché questo si applica a dei motori non c’è nulla di male. Purtroppo però questo concetto viene applicato alle persone. Quando una persona non è più funzionale ai miei interessi, quando non mi rende più, quando l’età o la malattia la rendono un peso o un ostacolo alla mia libertà… allora penso a come disfarmene.
Spesso affidiamo queste persone alla scienza medica e alla tecnologia. Cose belle e per fortuna oggi esistono; ma né la scienza né la tecnologia possono sostituire una persona che mi vuol bene, un gesto anche piccolo di affetto e di solidarietà da parte di un amico. Un sorriso costa molto meno di una lampada, ma fa più luce.
Mi era stato chiesto di trovare le illustrazioni per un fascicolo dove si parlava della vecchiaia e della morte. Mi vengono ancora i brividi quando penso ad una foto trovata su un libro che presentava il progetto per la costruzione di una clinica nella quale era previsto un reparto riservato agli ammalati terminali. Al soffitto di una grande sala era installata una rotaia alla quale erano appese delle cabine come fossero dei loculi contenenti un materasso sul quale era adagiato l’ammalato. Queste cabine venivano fatte scendere per la somministrazione delle medicine e del cibo. Per tutto il resto del giorno e della notte la solitudine e l’esclusione.
Una nota a pié di pagina si premurava di dire che questo progetto non era stato accettato. Ma già il fatto di averlo pensato… Del resto oggi le strutture ospedaliere sono chiamate “aziende sanitarie”; un nome che è tutto un programma. Si tratta di un investimento che ha senso solo se mi rende: il guadagno al primo posto.

Qualcuno aveva proposto di regalare un computer o una televisione per togliere l’ammalato dalla solitudine. Ma neanche la più sofisticata tecnologia è in grado di produrre un solo grammo di affetto. La solitudine è il più grande castigo che possiamo infliggere ad una persona; è come negarle l’esistenza e derubarla della vita.
La prima impressione che sia, guardando lo stile di vita che ci viene imposto dalla nostra cultura contemporanea, è che la nostra vita non è un camminare insieme; ma è una corsa a ostacoli, una gara a eliminazione. Dovrebbe essere una cordata dove è d’obbligo l’aiuto reciproco e invece l’altro è visto spesso come un ostacolo da eliminare. Ci hanno inoculato il virus dell’alta velocità così ci hanno rubato il tempo, non ne abbiamo più per nessuno. Quando qualcuno ci chiede di essere ascoltato guardiamo subito l’orologio quasi per dire: “Non fatemi perdere tempo”. E questo avviene anche nell’ambito della vita familiare dove non si trova più il tempo per parlarsi e per ascoltarsi. Abbiamo perso il gusto della contemplazione, la capacità di guardare le cose belle che ci circondano, la gioia di gustare la compagnia di una persona amica, la capacità di giocare come gioca un bambino…

Abbiamo costruito i condomini (termine che significa “vivere insieme”), abbiamo creato sì una vicinanza fisica, ma non abbiamo creato comunione. Chi sta al di là del muro che separa gli appartamenti spesso non è più un vicino, ma uno straniero, anzi un potenziale nemico da cui difendersi.
Poi è arrivato il coronavirus che ha buttato all’aria senza tanti complimenti e senza chiederci il permesso tutte le nostre abitudini, tutti i nostri progetti e ci ha obbligati a riprendere le misure del nostro tempo.
E adesso? Come la famiglia di Noè dobbiamo uscire dall’arca non tanto per celebrare la fine del diluvio (che non è ancora avvenuta), ma per inventarci una vita nuova. Imparare a vivere ogni passaggio non come la fine di qualche cosa, ma come un nuovo inizio, un cominciamento.
Dobbiamo riappropriarci della vita, quella vera, quella che continuamente cercano di rubarci, o che noi stessi abbandoniamo. Dobbiamo reinventare il tempo e lo spazio, dobbiamo riprenderci il tempo e non lasciarci prendere dal tempo.
Prendo un suggerimento dalla saggezza africana: “Quando al mattino ti alzi la prima cosa che devi fare è uscire dalla tua capanna per incontrare gli altri”.
Andare all’incontro, non lasciare mai più nessuno da solo. Il tempo che passiamo in compagnia di chi ha bisogno non è tempo perso, non è tempo rubato alla vita, ma è il tempo che ci fa riscoprire il gusto della vita.

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