Attirerò tutti a me

da | 9 Aprile 2021 | Spiritualità dehoniana

Non c’è Cristo in croce che non sia rappresentato con il costato trafitto
Quella ferita ha assunto un significato simbolico fortissimo: è il segno del dono totale della sua vita, segno che attira, suscita la fede e movimenta una spiritualità.

In diverse sue affermazioni Gesù è profetico. Il suo sguardo va oltre l’immediato. Ha un sentire e un agire in prospettiva.
Lo vediamo da quando, e come, supera le tentazioni nel deserto, dopo il battesimo. Ad ogni suggestione del diavolo, risponde prospettando altro rifacendosi alla parola di Dio: «Sta scritto» (Mt 4,1-11). Non le coglie in riferimento al suo vantaggio personale, ma le valuta in prospettiva più ampia e le risolve appellandosi a un progetto che lo supera e viene dall’alto.
Ha compreso che la sua vita è segnata da una missione da compiere in conformità alla volontà del Padre e la assume in piena libertà e disponibilità.

Prospettiva della croce

Ben presto matura la prospettiva della passione. Ne parla in tre distinti momenti agli apostoli, ma essi non comprendono il messaggio. Ritengono assurdo che il loro Maestro – riconosciuto il Cristo (Mc 8,29) – debba essere ucciso. Gesù è molto esplicito: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,18-19). Dopo l’ingresso messianico in Gerusalemme, immediatamente prima della cena pasquale, Gesù dice: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Giovanni, commenta: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,33). E quando un soldato colpisce con la lancia il costato di Gesù in croce, per assicurarsi della sua morte, citando la profezia del profeta Zaccaria, l’evangelista scrive: «Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto» (Gv 19,37).

La croce, per la simbolica del tempo, è sempre stata una ignominia, per cui agli apostoli è apparsa come una sciagura. Non quindi da mostrare, ma da nascondere. Infatti nei primi tre secoli della Chiesa difficilmente si vede la raffigurazione della croce. Manteneva sempre il sapore della sconfitta, nonostante la realtà della risurrezione di Gesù

Croce e salvezza

Con il riconoscimento pubblico del cristianesimo (380 d.C.), la Chiesa presenta la croce come il simbolo “dell’orgoglio cristiano”, memore anche di quanto detto da s. Paolo: «Non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14). Il Cristo con il costato trafitto rimane il vero punto di riferimento che richiama la totalità dell’amore oblativo: Gesù ha donato tutto se stesso per la redenzione degli uomini, «ha pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20).
Sul costato aperto si è concentrata da subito la riflessione spirituale. Giovanni stesso la avvia, notando che dal fianco colpito da un soldato «subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 1934). Già in precedenza aveva fatto riferimento a una fonte d’acqua, associandola al dono dello Spirito, che i credenti avrebbero ricevuto dopo la morte di Gesù (cfr. Gv 7,37s; 4,14).
I padri della Chiesa, in questo Spirito significato dal sangue e dall’acqua, hanno visto i sacramenti dell’Eucaristia, nel sangue, e del Battesimo, nell’acqua.
La riflessione teologica seguente ha approfondito questo aspetto, divenuto centrale nella fede della Chiesa.

Il cuore oltre la ferita

Tuttavia, oltre la ferita del costato, lo sguardo della fede ha messo in rilievo anche il cuore. La ferita provocata dalla lancia diventa il passaggio che giunge al cuore e ne rivela la ricchezza spirituale che simbolicamente esso contiene. Anche il cuore di Gesù è stato aperto dalla lancia, si è svuotato, ha dato tutto ciò che conteneva: «Ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).
Da questa contemplazione, nel XII secolo si è sviluppata la spiritualità del Cuore di Gesù – come abbiamo già scritto -, che ha raggiunto la sua massima diffusione nei secoli XIX-XX. Ha nutrito la spiritualità cristiana in modo sorprendente, facendo leva sulla dimensione affettiva del cuore, movimentata anche dalle rivelazioni private e dall’afflato mistico.

Ritorno al Vangelo

Con l’avvento del Concilio Vaticano II, la spiritualità del Cuore di Gesù ha un declino. Il motivo si riconosce nell’intento del Concilio di riportarla alle fonti della Scrittura, ponendo in secondo piano ogni altro riferimento. Da qui, l’icona principale è divenuta il costato aperto, con tutta la carica di messaggio salvifico che esso contiene. Il riferimento al cuore rimane, ma in stretta connessione alla trasfissione. Ambedue i simboli – ferita e cuore – sono valorizzati per mettere in risalto l’intera vita di Gesù consumata nel dono di sé, per amore.
In risposta positiva alle indicazioni del Concilio – che chiedeva anche agli Istituti religiosi di rivedere il proprio impianto costitutivo e carismatico alla luce della Scrittura -, anche i Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani) hanno riformulato le loro Costituzioni. Non fanno cenno alle rivelazioni private a Santa Margherita Maria ma al solo dato scritturistico: «Con san Giovanni, vediamo nel costato aperto del Crocifisso il segno di un amore che, nel dono di sé, ricrea l’uomo secondo Dio. Contemplando il Cuore di Cristo, simbolo privilegiato di questo amore, veniamo rafforzati nella nostra vocazione. Infatti siamo chiamati a inserirci in questo movimento dell’amore redentore, donandoci ai nostri fratelli con il Cristo e come il Cristo» (Cst 21).

Fedeltà dinamica

P. Dehon – l’abbiamo già scritto – ha respirato la sensibilità religiosa del suo tempo fortemente attratta dalla devozione al Sacro Cuore di Gesù nell’ottica delle rivelazioni private di Santa Maria Margherita Alacoque. Una devozione impregnata di amore compassionevole per le ingratitudini di cui si è lamentato Gesù stesso. Da qui la risposta generosa intesa a riparare le indifferenze e gli oltraggi.
Nel contempo, p. Dehon non si accontenta di vivere e di proporre ai suoi religiosi una spiritualità fatta di devozioni. Il contesto in cui vive, fortemente provocatorio per le molteplici problematiche sociali e religiose che presenta, lo porta ad essere innovativo e propositivo. Gli sta a cuore la formazione delle persone, che consenta loro di vivere una fede più consapevole e testimoniante e una presa di coscienza del contesto sociale del tempo.
La formazione avuta a Roma gli ha permesso di respirare con la Chiesa. Ha vissuto in prima persona il Concilio Vaticano I, come stenografo, e ha aperto gli orizzonti grazie alle problematiche trattate e al contatto personale con diversi Vescovi. Ha conosciuto personalmente anche cinque pontefici. Da Leone XIII ha ricevuto la consegna di far conoscere la sua enciclica Rerum Novarum di forte impronta sociale.
P. Dehon si è speso per il rinnovamento interiore e strutturale. Per lui era urgente che la Chiesa si rinnovasse, a partire dai sacerdoti: una vita più coerente con il Vangelo, più vicina alle persone, non limitata all’adempimento dei precetti e all’amministrazione dei sacramenti, più coinvolta nel tessuto sociale.
Ai suoi religiosi raccomanda, nel contempo, di essere fedeli nel vivere la Regola dell’Istituto, di coltivare lo spirito di riparazione nel vissuto personale e di tenere gli orizzonti aperti per cogliere le esigenze del contesto in cui vivono. Dice di “uscire dalle sacrestie” per incontrare le persone sul territorio, coglierne i bisogni e avere inventiva. Parla di “Regno del Sacro Cuore di Gesù nelle anime e nelle società”: far entrare i valori evangelici nel tessuto civile, facendo conoscere la dottrina sociale della Chiesa.
Spende la sua esistenza interiormente e apostolicamente motivato. Tutto ha fatto per amore al Cuore di Cristo. Negli ultimi giorni di vita, ai visitatori che lo accostavano, indicando una cartolina con l’immagine di Giovanni che reclina il capo sul petto di Gesù, diceva: «Ecco il mio tutto, la mia vita, la mia morte, la mia eternità».

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Argomenti: Cuore | Gesù
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