Chi ha orecchi, ascolti

da | 17 Dicembre 2021 | Spiritualità nel quotidiano

Sentire, ascoltare, orecchiare, percepire sono tutti verbi che hanno riferimento alle parole, rumori, suoni che entrano nelle nostre orecchie. C’è chi ha un buon udito e chi è sordo, chi è sensibile e chi duro d’orecchi, chi non si lascia sfuggire una parola e chi ne lascia cadere troppe, chi è sensibile e chi indifferente, chi sente male e chi di mala voglia… È un mondo che entra in noi attraverso il senso dell’udito, ma quanto di esso incide? Quanto passa dal sentire all’ascoltare? Quanto facciamo nostro oppure eliminiamo, e perché?

All’inizio l’ascolto

Le parole, prima di pronunciarle, le abbiamo ascoltate. Piano piano le abbiamo organizzate e sono diventate linguaggio. Con il tempo si sono sistemate in pensiero, in ragionamento, in schemi mentali.
Ciascuno di noi si è fatto un quadro di riferimento generale e su singoli argomenti. In alcuni ambiti abbiamo le stesse idee, in altri siamo di opinioni diverse. Pur avendo tutti le orecchie, abbiamo filtri diversi che selezionano le parole e le depositano. Dei nostri convincimenti siamo gelosi e li difendiamo con motivate argomentazioni.
Siamo chiamati a passare dal sentire all’ascoltare; dal semplice suono delle parole al significato che contengono, a non lasciarle scivolare via, bensì a depositarle nell’intimo e a elaborarle. Aiuta l’età nella fase di crescita, di maturità, di senescenza; ma aiuta molto la riflessività, il confronto, lo studio, l’esperienza.
Il continuo ascoltare, se bene inteso, ci impedisce di rimanere bloccati sul nostro schema mentale; ci mantiene aperti, in ricerca, in elaborazione-rielaborazione, approfondimento. Ci fa raggiungere convinzioni sempre più assodate e valori che ci mantengono bene orientati; impedisce la rigidità mentale mantenendo l’orizzonte sempre aperto alla novità e alla verità.

L’ascolto che cambia

È stato Gesù a dire «Chi ha orecchi, ascolti» (Mt 11,15), alla conclusione del discorso su Giovanni Battista definito «il più grande fra i nati di donna» (Mt 11,11). Gesù dice alla folla cose inaspettate, rovescia la prospettiva maturata nel sentire comune del popolo a riguardo del Messia e del Battista stesso. Questi è ‘un grande’ nella sua missione e nel suo modo umile di proporsi; ma è soprattutto «quell’Elia che deve venire» (Mt 11,14), per cui è giunto il tempo della presenza del Messia. Lo aveva detto Giovanni stesso: «C’è uno in mezzo a voi uno al quale non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,27) e aveva indicato Gesù chiamandolo “l’Agnello di Dio” (Gv 1,36). Si tratta allora di cogliere il nuovo che avanza e di guardare alla persona di Gesù riconoscendolo quale Messia.

 Entrare nel Regno di Dio

Anche a Giovanni, Gesù chiede di cambiare prospettiva. La domanda che il Battista gli ha fatto giungere tramite i suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3), manifesta le sue perplessità sull’identità di Gesù. Non gli sembra corrispondere alla figura del Messia atteso, che avrebbe tagliato e gettato nel fuoco ogni albero che non dà buoni frutti, e tenuto in mano la pala per pulire l’aia bruciando la paglia con il fuoco inestinguibile (Mt 3,10-12). Troppo debole il suo comportamento, troppo diverso dalle aspettative.
Gesù gli manda un messaggio illuminante: la vera identità del Messia è descritta dal profeta Isaia e si manifesta in quello che lui sta facendo: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5); e conclude: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,6).
Gesù gli sta dicendo di superare lo schema che si è fatto e di aderire a quello pensato da Dio. Anche per Giovanni è chiesta la conversione della mente e del cuore. Ha visto, ha sentito, è stato illuminato dal Messia stesso, Gesù.

 Orecchi aperti alla novità di Dio

Anche a noi Gesù chiede di non essere bloccati nei nostri schemi, anche religiosi; di scrutare bene l’intero progetto di Dio sul mondo, di rimanere aperti agli appelli che ci vengono dal vissuto per leggerli alla luce del Vangelo, in filigrana con lo stile da lui adottato.
La Chiesa lo ha compreso bene nel Concilio Vaticano II: ha dismesso una certa mentalità mondana e ha assunto la prospettiva più aderente al Vangelo. La troviamo espressa fin dalle prime parole del documento sulla Chiesa in rapporto al mondo contemporaneo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et Spes 1).
Gesù conclude il discorso su Giovanni Battista dicendo che l’appartenenza al regno dei cieli, anche nella condizione di sperimentare la nostra piccolezza, in realtà ci pone in una posizione superiore al Battista, perché godiamo della presenza del Cristo Signore e viviamo alla luce del suo insegnamento e della sua esemplarità.

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