Vivere in comunità … fino alla fine di un nuovo inizio
Scriveva Dietrich Bonhoeffer (Vita comune, Queriniana, 2003, pp. 21-23):
“Chi vuol aver più di quanto Cristo ha stabilito fra di noi, non vuole fraternità cristiana, ma cerca qualche sensazionale esperienza di comunione, altrimenti negatagli, immette nella fraternità cristiana desideri confusi e impuri. È questo il punto in cui la fraternità cristiana, il più delle volte già nell’atto del suo costituirsi, corre in massimo grado il pericolo del più sottile inquinamento, nello scambio della fraternità cristiana con un ideale di comunità di devoti; nella mescolanza del naturale desiderio di comunione che nasce dal cuore devoto con la realtà spirituale della fraternità cristiana. Perché si abbia la fraternità cristiana, tutto dipende da una sola cosa, che deve essere chiara fin da principio: primo, la fraternità cristiana non è un ideale; secondo, la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non della psiche. In moltissimi casi un’intera comunità cristiana si è dissolta, in quanto si fondava su un ideale. E spesso è proprio il cristiano rigoroso, che entra per la prima volta in una comunione di vita cristiana, a portarsi dietro un’idea ben precisa del vivere insieme tra cristiani, e a cercare di realizzarla. Ed è poi la grazia di Dio che fa rapidamente svanire simili sogni. Dobbiamo cadere in preda a una grande delusione circa gli altri, i cristiani in genere e, se va bene, anche circa noi stessi, e a questo punto Dio ci farà conoscere la forma autentica della comunione cristiana. È la pura grazia di Dio a non permettere che viviamo nell’ideale, nemmeno per poche settimane, che ci abbandoniamo a quelle gratificanti esperienze e a quella fede esaltante che ci sopraggiungono come un’ebbrezza. Dio infatti non è un Dio delle emozioni dell’animo, ma un Dio della verità. La comunità comincia a essere ciò che deve essere davanti a Dio solo quando incorre nella grande delusione, con tutti gli aspetti spiacevoli e negativi che vi sono connessi; solo a quel punto comincia a comprendere nella fede la promessa che le è stata data.
È un vantaggio per tutti che questa ora della delusione circa gli individui e la comunità sopraggiunga quanto prima. Ma una comunione incapace di sopportare e di sopravvivere a tale delusione, per il fatto di dipendere dall’ideale, con la perdita di questo perde anche la promessa di una stabile esistenza che è data alla comunione cristiana, e quindi prima o poi per forza va in rovina. Qualsiasi ideale umano, immesso nella comunione cristiana, ne impedisce l’autentica realizzazione, e deve essere distrutto perché possa vivere la comunione vera. Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato a essere un elemento distruttore di ogni comunione cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione … Chi si costruisce un’immagine ideale di comunione, pretende la realizzazione di questa da Dio, dagli altri e da se stesso. Nella comunità cristiana avanza esigenze sue, istituisce una propria legge e giudica in base a essa i fratelli e perfino Dio. Si impone con durezza, quasi un rimprovero vivente nel gruppo dei fratelli. Fa come se spettasse a lui solo creare la comunione cristiana, come se fosse il suo ideale a legare insieme gli uomini. Ciò che non va secondo il suo volere è preso da lui come un fallimento. Quando il suo ideale fallisce, pensa che si tratti della rovina della comunità. E così diventa prima accusatore dei fratelli, poi accusatore di Dio e infine si riduce disperatamente accusatore di se stesso. È Dio ad aver già posto l’unico fondamento della nostra comunione, è Dio ad averci unito con altri cristiani in un solo corpo, in Gesù Cristo, ben prima che iniziassimo una vita comune con alcuni di loro: per questo la nostra funzione nel vivere insieme ad altri cristiani non è quella di avanzare esigenze, ma di ringraziare e di ricevere. Ringraziamo Dio per ciò che egli ha operato in noi. ringraziamo Dio perché ci dà dei fratelli che vivono la sua vocazione, del suo perdono dei peccati, della sua promessa. Non reclamiamo per ciò che da Dio non ci vien dato, ma lo ringraziamo per ciò che ci dà quotidianamente: l’eternità”
Leggere queste immagini di “vita religiosa” permette di interpretare una realtà comunitaria che va oltre, ormai, la singola storia di ciascuno dei religiosi che l’ha scritta.
Attenzione però: leggere non è solo vedere, perché dal punto di vista umano qui puoi guardare semplicemente degli anziani “religiosi” in un giorno di festa … oppure, ed è questo che subito non si nota, leggere l’immagine della loro esistenza, umanamente finita, che rimanda, rinvia, ha dentro, i segni della loro religiosità, della consacrazione, per sempre.
Di questi tempi, grazie al crollo di simboli “grandi” che hanno fatto la storia della Chiesa, poco espressione del “segno” fragile Gesù, ci stiamo visivamente abituando (ma non è solo necessità, è grazia di Dio che opera) ad un altro modo di essere Comunità, Religiosi, Chiesa.
Rimane quell’eternità dell’essere consacrati, di cui scrive Bonhoeffer, che non è più sforzo/impegno umano, inutile inganno che fa credere di contare qualcosa, ma solo il rimando, nella povertà di ciò che è umano e finito, ad una “presenza” del Regno che può essere capita/vista solo da chi vive oggi il vangelo di Gesù.
In una prospettiva, non da intendersi in termini di giudizio morale, “irreligiosa” (scrive Sergio Givone, Quant’è vero Dio, ed. Solferino 2018, pag.26) “ogni cosa sta raccolta nella luce fredda di una verità nuda e disincantata che identifica ogni momento dell’essere con se stesso e con nient’altro”. Forse è semplicemente questo che si vede?
Il finire, il fallire, lo spegnersi, … sono situazioni che il Cuore di Dio legge, vede e racconta in altra maniera rispetto a ciò che subito, sopra, si coglie. Vivere sulla propria pelle questo sguardo che vede dentro le ferite è una fertile benedizione: “se il chicco non muore non porta frutto”.