Vocazione è ascoltare la realtà,
lasciarci interpellare e provocare dalle situazioni
e rispondere con la nostra vita,
gridando sempre con gioia, il nostro: “Eccomi!”
All’età di 9 anni sono entrata negli scout e sono diventata una Coccinella.
Ricordo che una delle prime cose che mi hanno insegnato i miei capi è che le coccinelle sono insetti utilissimi perché, nutrendosi di afidi (parassiti), salvano interi raccolti. Allo stesso modo, le Coccinelle (bimbe dagli 8 ai 12 anni) trovano sempre la maniera di rendersi utili e volere bene a tutti. Per questo ad ogni chiamata o richiesta di servizio una coccinella non può che rispondere: “Eccomi!”
Inoltre “se si trovano in difficoltà, nel dolore, nei guai o in pericolo, le coccinelle non piangono, ma solo sorridono e tengono duro”. Per questo sono chiamate “portatrici di gioia”, perché affrontano ogni cosa con il sorriso.
A causa di problemi di alcolismo in famiglia, non ho avuto un’infanzia e un’adolescenza facili e ricordo che a quei tempi dicevo sempre a me stessa: “Io sono una coccinella e il mio compito è diffondere gioia, nonostante quello che succede a casa!” Avevo preso così seriamente la mia “missione”, che non credo di sbagliare a ritenere sia stato quello il mio primo approccio al tema della “vocazione”.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un pensiero di James Hillman, uno psicoanalista, saggista e filosofo statunitense, che mi ha fatto riflettere, perché parla di vocazione in senso più ampio rispetto a quello religioso:
“Perché è questo che in tante vite è stato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione.
Ovvero c’è una ragione per cui si è vivi.
Non la ragione per cui vivere, non il significato della vita in generale o la filosofia di un credo religioso.
Esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo ed esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere.
La sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista”.
Ancora oggi troppe persone legano il termine vocazione solamente alla vita consacrata, concependo la vocazione come qualcosa che si ha o non si ha, quasi ci fosse un test da fare che possa rivelarla.
Alcuni ritengono che si può arrivare a sentirsi appagati nella vita, solo se si riesce a dar seguito alle proprie passioni e a svolgere un mestiere che le realizzi e sprecano un sacco di tempo ed energie per capire cosa può renderli felici e alla fine, magari, felici non sono.
Io sono invece convinta che la vocazione non consista tanto nel fare qualcosa, ma anzitutto nell’essere.
Non siamo forse felici quando ci sentiamo liberi di essere davvero noi stessi, così come siamo, unici e irripetibili, con le nostre capacità e i nostri limiti, con i nostri doni e le nostre fragilità, con il nostro corpo, la nostra intelligenza e sensibilità, con la nostra storia e quindi con le esperienze vissute e gli incontri fatti?
Vocazione è forse allora provare semplicemente a vivere la nostra unicità!
E mi tornano alla mente alcune parole di mia suocera. Il gelsomino era il suo fiore preferito e ricordo che un giorno mi disse: “Vedi questa siepe di gelsomini? Non è ancora del tutto fiorita, eppure il loro profumo già si sente anche a distanza; stanno compiendo la loro vocazione: spargere soavità nell’aria!”.
Il gelsomino semplicemente è. E nel suo essere implicitamente agisce.
Chiedersi quale sia la propria vocazione significa quindi chiedersi come si può vivere fino in fondo quello che si è, per poi portare agli altri quella unicità, valorizzandola al massimo e facendone un dono per tutti.
Allora avremo docenti che entrano in classe non solo perché devono portare avanti un programma ministeriale: nel loro spiegare, interrogare, correggere, metteranno tutto il loro desiderio, perché il loro insegnare aiuti i ragazzi che hanno davanti innanzitutto a crescere, a diventare uomini e donne, e la loro passione sarà contagiosa e il loro voler bene agli alunni tangibile.
Allora avremo infermieri che entrano nelle camere di ospedale non solo per fare prelievi o somministrare medicine, ma anche per abbracciare, ascoltare, consolare, incoraggiare, sostenere i pazienti, che non solo di medicine hanno bisogno, ma anche di speranza, di un sorriso, di una buona parola, di una presenza gioiosa.
Allora avremo sacerdoti che ti aprono la loro porta senza paura di usare la dolcezza, che ti accolgono abbracciandoti e sono pronti ad ascoltare in silenzio tutte le lacrime parlanti che possono scaturire da quell’abbraccio, senza scandalizzarsi, senza fuggire dietro la stola, così che dentro le tue tempeste tu possa sentirti subito amato.
Allora avremo papà e mamme che, nonostante la fatica di una giornata trascorsa al lavoro e il peso delle responsabilità quotidiane, si prendono del tempo per stare coi propri figli, per giocare a terra con loro quando sono piccoli e ascoltare i loro racconti di ragazzi, senza minimizzare i loro problemi o fuggire davanti ai silenzi e ai bronci dell’adolescenza, testimoniando con pazienza, fiducia e speranza quell’amore che, nato nella coppia, si purifica e rafforza quando viene donato, all’interno della famiglia così come all’esterno, quell’amore che diventa accoglienza e spirito di servizio.
Allora avremo uomini e donne che, pur immersi nella vita per quella che è, con le sue corse sfrenate e le sue battute di arresto, con le sue gioie e le sue sofferenze, i suoi miracoli e i suoi drammi, sapranno decentrarsi e, non più concentrati sul proprio IO, oseranno spendersi per il NOI, riscoprendosi umani e trovando il modo di aiutare chi è in difficoltà, senza fare grandi cose o senza la pretesa di risolvere i problemi, ma semplicemente trovando il coraggio di esserci ed esserci con il cuore.
Io gente così, che ha trovato la propria ragione di essere al mondo e con essa la propria strada e la reale possibilità di essere felice, ho avuto la fortuna e la gioia di incontrarne sul mio cammino. L’ultima proprio ieri: sono andata a fare la mia prima mammografia ed ero un po’ preoccupata, perché non sapevo cosa aspettarmi. Il tecnico radiologo, invece di attendermi nella saletta dedicata, mi è venuto incontro in corridoio e mi ha accolto con un sorriso, che mi è giunto nonostante indossasse la mascherina e quanta cura e attenzione e premure mi ha dedicato per rendere l’esame il meno doloroso e fastidioso possibile!
Sono andata via sorridendogli a mia volta dietro la mascherina e ringraziandolo e ringraziando in cuor mio tutte quelle persone incontrate negli anni, da cui ho imparato che non importa che cosa facciamo, se teniamo in mano una pala, una scopa o una penna, se dobbiamo curare un malato o stare davanti al pc o al telefono per ore ogni giorno, se ci è richiesto di rammendare o tenere una conferenza.
Vocazione è fare bene quello che si deve e soprattutto mettere amore in tutto quello che si fa.
Vocazione è sentirsi sempre in cammino, senza pensare ai risultati, ma mai smettendo di mettere i propri talenti a disposizione degli altri, nella consapevolezza che “il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri” (B.P.).
Vocazione è ascoltare la realtà, lasciarci interpellare e provocare dalle situazioni in cui ci troviamo e rispondere con la nostra vita, gridando con tutto il nostro cuore e le nostre forze, e sempre con gioia, il nostro: “Eccomi!”
Oggi la gente ti giudica per quale immagine hai.
Vede soltanto le maschere e non sa nemmeno chi sei.
Devi mostrarti invincibile, collezionare trofei, ma quando piangi in silenzio scopri davvero chi sei.
(…)
Credo negli esseri umani che hanno coraggio, coraggio di essere umani
Prendi la mano e rialzati, tu puoi fidarti di me, io sono uno qualunque, uno dei tanti, uguale a te.
Ma che splendore che sei nella tua fragilità e ti ricordo che non siamo soli a combattere questa realtà…