Educare, quindi, è un continuo rinascere, è lasciar andare, perché ciò che abbiamo messo al mondo non muoia con noi, ma continui a fiorire.
“Perché educare significa ascoltare l’individualità, la particolarità unica ed insostituibile che un giovane porta con sé, significa aiutarlo a srotolate il gomitolo che ciascuno porta dentro, a trovare il proprio esserci nella vita, significa far uscire la crisalide.
Non devono essere incitati ad essere ubbidienti e bravi ma ad osare, ad essere coraggiosi, a credere nell’impossibile, non devono avere dinnanzi un percorso chiaro e limpido, ma abituati a vedere solo una traccia, ad intravedere un sentiero, non devono essere poeti ma solo “essere”, non devono avere litanie ma incitati a saper vedere tra le righe qualche spiraglio di spazio nuovo, a saper vedere nel disordine di idee confuse, di desideri non chiari un terreno di coltura ricco di trame che richiedono solo un appiglio per una nuova costruzione.
E loro saranno quella costruzione, preziosa ed unica, solo loro e non di altri. Devono imparare a dar valore a tutto ciò che salta alla mente, ad amare il proprio pensiero, a vederne la bellezza, a trovare visioni nuove, devono avere fiducia. Non devono imparare a volere, ma non aver paura della cosa nuova”.
Pavel Florenskij
Il settimo incontro on-line sulla generatività guidato da padre Giovanni porta il titolo “Educare: la passione di uscire”. E la frase di apertura di Pavel Florenskij indirizza subito il percorso: “Educare significa ascoltare l’individualità che un giovane porta con sé, significa aiutarlo a srotolare il gomitolo, a far uscire la crisalide.”
Ecco che allora per arrivare a ciò siamo chiamati a disapprendere, cioè a combattere questo dover stare al passo con i tempi, questo conformismo, questo dover essere “smart” e “digitali” a tutti i costi, non capendo il senso di ciò che facciamo, diventando schiavi di beni di consumo.
L’invito è quello di valorizzare il possibile, l’umano, il buono.
In questi anni di pandemia sono nate nuove forme di digitale, o se vogliamo, nuove forme di resilienza. Fondamentale è saper scegliere come e cosa usare, per divenire capaci di trasformare quello che ci è dato (anche i momenti difficili) in momenti di vita.
L’importante sono le persone e le relazioni, per saper essere quello che si è, per cogliere l’essenziale.
E qui mi vengono in mente le parole di un corso di aggiornamento sulle dipendenze al quale ho partecipato di recente. Si diceva che la differenza tra la soddisfazione che si ricava nella relazione interpersonale e quella che si ricava dall’assunzione di sostanze, come da una dipendenza qualsiasi (e penso che dipendenti lo siamo un po’ tutti) è che in quest’ultima non vi è l’ingaggio nella relazione.
La soddisfazione che si ricava nello scambio interpersonale, non è controllabile e dipende anche dal sentire e dal volere dell’altro; comporta quindi il rischio della frustrazione e della perdita. Ecco perché anche i nostri ragazzi preferiscono i social alle relazioni vere, preferiscono ottenere la stessa soddisfazione, quell’abbraccio virtuale che evita loro il rischio del fallimento e allo stesso tempo non li rende dipendenti da altri. Ma tutto questo porta ad una disumanizzazione.
Come è emerso dall’incontro, invece, noi possiamo diventare chi siamo solo grazie agli altri; più relazioni vere abbiamo e più ci sentiamo coinvolti nella vita. L’identità si nutre di legami.
Per questo serve educare, come un continuo rimettere al mondo ed essere rimessi al mondo.
Padre Giovanni poi nel suo intervento si è soffermato sull’educazione fra le generazioni come trasmissione di un’esperienza passata che si trasforma e che trasforma.
E’ l’incontro che in primis ci porta ad osservare ed assaporare l’altro.
E lo stupore è il principio di ogni contemplazione, è senso di gratitudine e di meraviglia per questa vita che viene trasmessa e che non ci appartiene.
Educare è saper avere uno sguardo libero sull’altro, libero da preconcetti, da rappresentazioni, da schemi, accettando di volta in volta il rischio di abitare la relazione.
Non è questione di dominio, ma di testimonianza. Infatti, come dice Papa Francesco:
“Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni”
e ancora:
“L’educazione è soprattutto una questione di amore e di responsabilità che si trasmette nel tempo di generazione in generazione”.
L’educatore, quindi, non è solo chi sa, ma chi ama, chi si appassiona, chi sa parlare con la vita, chi ci mette il cuore, chi è testimone.
Come non pensare ai genitori che trasmettono ai figli quello che sono, prima ancora che quello che dicono!
Come non pensare ai miei figli, anzi, come non pensare a me! Come sono io? Come mi comporto? Che testimonianza do? Mi ritrovo spesso a dare mille indicazioni, a riempire di regole le loro giornate, ad inculcare loro dei principi a cui a volte non credo nemmeno io. E al posto di amare la loro bellezza e unicità e far uscire questa crisalide, vorrei che rispondessero alle mie aspettative, vorrei poter spianare loro la strada e rendere tutto più dolce e meno faticoso, in fondo rendere tutto meno vivo e vero. Ma come dice Recalcati: “I genitori sbagliano sempre. Quello che conta è provare a tenere insieme il desiderio, ovvero la possibilità di avere una passione, una forza, un progetto”.
Educare, quindi, è un continuo rinascere, è ogni volta un rimettersi in gioco, è un lasciar andare, cosa indispensabile per ogni nuovo inizio, perché ciò che abbiamo messo al mondo non muoia con noi, ma continui a fiorire.
E’ un prendersi cura con delicatezza ed attenzione, con rispetto e passione.
Insomma, è sempre questione di cuore, è sempre questione di vita!
Francesca Bolzon, Cavedine (TN)