C’è una sete che va oltre il bisogno di bere,
si estende alla ricerca di significati che soddisfino il nostro bisogno di senso.
Aneliamo alla sorgente da cui scaturiscono.
Quante volte, soprattutto con il caldo torrido, diciamo e sentiamo dire: «Ho sete!» e cerchiamo qualcosa con cui dissetarci. Bere è uno dei bisogni primari. Possiamo protrarre il non mangiare, ma molto meno il non bere. Sentiamo crescere l’arsura interna, la bocca che si impasta, la fatica di deglutire. Cerchiamo acqua che ci disseti. Non ci stacchiamo dalla bottiglia o dalla fonte finché non ci sentiamo sollevati esclamando, con un sospiro di sollievo: «Ah, finalmente! che buona!».
Le penultime parole di Gesù sulla croce sono state proprio: ««Ho sete» (Gv 19,28). Sfinito dal portare la croce, dal martirio della crocifissione e dalla perdita di sangue, il suo corpo è tormentato dal bisogno di bere. Gli danno dell’aceto con una spugna imbevuta e posta su una canna. Un’ulteriore sofferenza a tanto tormento! E Giovanni commenta che tutto è avvenuto «per adempiere la Scrittura», quanto è scritto nel salmo 69,22: «quando avevo sete mi hanno dato aceto».
La richiesta di Gesù è venuta ad assumere un significato che va oltre la sua sete fisica: è una sete di portare salvezza, una sete di anime. Solo la sua vita donata gli toglie l’intima arsura. Aveva appena detto al ladrone pentito: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). In paradiso vuole tutti, uniti nell’amore del Padre, riconciliati nel suo sangue versato, riscattati del suo dono d’amore totale.
Attratti dalla sua sete
La vita della santa Madre Teresa di Calcutta è cambiata radicalmente il giorno in cui, salita sul treno, si è sentita dire da un povero sul marciapiede: «Ho sete!». Quell’invocazione le ha trafitto il cuore e l’ha riportata a Cristo sulla croce. Era Gesù che la supplicava. Da quel giorno si è dedicata totalmente ai più poveri dei poveri, impegnata ad alleviare la loro sete intrisa di miseria provocata dalla povertà e dall’abbandono. Le sono risuonate le parole dette da Gesù alla Samaritana: «Dammi da bere» (Gv 4,7).
Le parole di Gesù diventano programma di vita, per chi le fa risuonare nel proprio cuore. Portano a scoprire innanzitutto il proprio bisogno di sete, a dargli un nome, a capire l’intensità, a cogliere i confini. Quale sete urge dentro di me? Certamente sete di affetto, ma anche di realizzazione, di riconoscimento. Sono chiamato a capire quali sentimenti muove dentro di me, come li indirizza e come manovra il mio comportamento, verso quali sbocchi mi porta.
La sete provocata da un bisogno non riconosciuto mi lascia un’arsura continuativa che mi porta a cercare molteplici fonti a cui attingere e che mi diano gratificazioni. Se invece la riconosco posso gestirla nelle giuste modalità. La posso alleviare e dispormi a investire bene le energie fisiche, psichiche e spirituali. Importante è che non focalizzi tutto sui miei bisogni e miri solo a cercare gratificazioni compensative. Sono chiamato a coltivare idealità alte
Ha sete di te l’anima mia
Se abbiamo trovato un sano equilibrio interiore, siamo portati a fare spazio ai bisogni più profondi. Non ci accontentiamo del solito cibo. Gesù ci ricorda che «non di solo pane vivrà l’uomo» (Mt 4,4). C’è la parola di Dio che sfama e disseta molto di più. Apre a idealità attraenti e coltiva l’anelito a poterle vivere. Solo se diamo spazio all’anelito profondo che nasce dal cuore, non rimarremo incentrati su di noi, ma ci apriremo a orizzonti nuovi che cambiano e arricchiscono la vita, le danno un senso profondo. La renderà sensibile a impegni di altruismo e daremo un grande spazio alla gratuità.
Il salmo 62 esprime bene l’anelito della persona che ha maturato aspirazioni profonde che l’aprono a Dio: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida senz’acqua… A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene» (Sal 62,1-2. 9).
Anche il salmo 41 esprime lo stesso concetto, pur collocato in un contesto diverso, quello dell’esilio, carico di attese e di speranze: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio» (v. 2).
L’aspirazione a trovare ristoro in Dio non distoglie dal cogliere il bisogno di chi è assetato e chiede di essere aiutato. L’anelito a Dio rimanda al bisogno dell’uomo visto come il prossimo da soccorrere.
Solo armonizzando i molteplici bisogni che nascono in noi e quelli che ci giungono dall’esterno, riusciamo a trovare il giusto equilibrio che ci dona serenità. È importane ascoltare la propria sete e darle il giusto appagamento. Essa ci attraversa ma non si blocca su di noi, bensì sfocerà in altre seti che appagheremo solo allargando il cuore nella dimensione della carità.