Il CUORE sacro

da | 3 Giugno 2018 | Dentro il Vangelo, Oggi nella Chiesa

il CUORE sacro …

Per 858 volte, nella Bibbia, si nomina il cuore. Per un israelita il cuore non è solo la sede della vita fisica e dei sentimenti, ma designa tutto l’uomo.
È la sede dell’intelligenza. Anche se a noi può risultare strano, i semiti pensano e decidono con il cuore: “Dio ha dato agli uomini un cuore per pensare” – afferma il Siracide (Sir 17,6). Al cuore l’israelita riferisce persino alcune percezioni dei sensi. Il Siracide, al termine di una lunga vita durante la quale ha accumulato le esperienze più disparate e ha acquisito molta saggezza, afferma: Il mio cuore ha visto molto (Sir 1,16)
In questo contesto culturale, l’immagine del cuore non poteva non essere applicata anche a Dio. La Bibbia dice che anche Dio ha un cuore che pensa, decide, ama e può anche essere colmo di amarezza.
È proprio questo il sentimento che è richiamato quando, all’inizio del libro della Genesi, compare per la prima volta la parola cuore: “La malvagità degli uomini era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male”.
Cosa prova Dio di fronte a tanta depravazione morale? “Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gn 6,5-6).
Egli non è impassibile – come pensavano i filosofi dell’antichità – non è indifferente a ciò che accade ai suoi figli. Gioisce quando li vede felici e soffre quando essi si allontanano da lui, perché li ama perdutamente. Anche se provocato dalle loro infedeltà, non reagisce mai con aggressività e violenza.
Secondo i criteri degli uomini, la risposta spontanea all’ingratitudine è il castigo. Ma Dio non si comporta in questo modo, egli non può non amare: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, perchè sono Dio e non uomo”. (Os 11,8-9).
Basterebbe questa sua affermazione per cancellare per sempre tutte le immagini che ci siamo fatti di Dio che punisce l’uomo.
I disegni del Signore, i pensieri del suo cuore sono sempre e solo progetti di salvezza, per questo – commenta il salmista – è “beata la nazione il cui Dio è il Signore” (Sl 33,11-12).

Fino alla venuta di Cristo conoscevamo il cuore di Dio “solo per sentito dire” (Gb 42,5), ora, in Gesù, i nostri occhi lo possono contemplare.
Nei vangeli ricorre ben 56 volte la parola cuore, ma una volta soltanto è riferita a Gesù (per due volte è citato il cuore Maria). È egli stesso che parla del suo cuore: “Venite a me – dice – voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30).
Quando parliamo del “cuore di Gesù”, facciamo riferimento a tutta la sua persona, ma anche alle sue emozioni più intime e il vangelo ci parla spesso di ciò che egli prova di fronte ai bisogni dell’uomo.
Il cuore di Gesù – come quello di Dio – è sensibile al grido dell’emarginato, al grido del lebbroso che, contravvenendo alle prescrizioni della legge, gli si avvicina e, in ginocchio, lo supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Gesù – nota l’evangelista – si emoziona fin nel più profondo delle sue viscere. Ascolta il suo cuore, non le disposizioni dei rabbini che prescrivono l’emarginazione. Stende la mano, lo tocca e lo guarisce (Mc 1,40-42).
Il cuore di Gesù si commuove quando incontra il dolore. Condivide il turbamento che ogni uomo prova di fronte alla morte, sente compassione della vedova che ha perso il suo unico figlio ed è rimasta sola. A Nain, quando vede avanzare il corteo funebre si fa avanti, si avvicina alla madre, le dice: “Smetti di piangere!” e le ridona il figlio.
Il vangelo ci riferisce anche una preghiera al cuore di Gesù.
Un padre ha un figlio con gravi problemi fisici e psichici: si irrigidisce, schiuma, si butta nel fuoco e nell’acqua. Con l’ultimo barlume di speranza che gli è rimasta va da Gesù, e, facendo appello ai sentimenti del suo cuore, gli rivolge una preghiera, semplice, ma stupenda: “Se tu puoi fare qualcosa, lasciati commuovere e aiutaci”.
In Gesù abbiamo visto i cuore di Dio che piange per la morte dell’amico e per il popolo incapace di riconoscere colui che gli offriva la salvezza, abbiamo visto Dio emozionarsi per le lacrime di una madre, commuoversi di fronte al malato, all’emarginato, a chi ha fame.

C’è una domanda che – per quanto sappiamo – fra tutte le creature della terra solo l’uomo si pone: c’è Qualcuno che, prima che esistessi, mi ha pensato e voluto, che mi ama e mi vuole felice o sono nato per uno scherzo del caso? C’è Qualcuno cui importi della mia vita o io non ho un Padre? Insomma, sono un figlio o sono un orfano?
Dalla risposta a questo interrogativo dipende il senso del mio esistere, il resto mi accomuna agli esseri inferiori.
L’invocazione della divinità con il nome di “padre” era un fenomeno comune a tutti i popoli dell’antico Medio Oriente. Israele fa eccezione: suo padre era Abramo, non Dio.
Gesù non solo chiama Padre Dio, ma introduce un’espressione ancora più familiare. Quando insegna ai discepoli come pregare il Signore, inizia con la parola “Abbà” che apparteneva al linguaggio infantile. Era usata infatti solo dai bambini fino all’età di 12-13 anni, poi era abbandonata.
Impiegando il termine abbà Gesù voleva far assimilare ai suoi discepoli un modo nuovo di concepire Dio, un modo semplice e affettuoso di rapportarsi con lui.
La tentazione dell’uomo è quella di non sentirsi amato, di sentirsi solo e abbandonato, specialmente nei momenti più drammatici.
È la tentazione attraverso la quale è passato anche Gesù. “Se sei figlio di Dio…”, se Dio è tuo Padre… Se pensi che davvero egli ti ami… – gli suggerisce il maligno – gli eventi che ti coinvolgono dovrebbero svolgersi in modo diverso.
La risposta di Gesù è chiara e senza esitazioni: riafferma la sua fiducia incondizionata nell’amore del Padre, anche quando le apparenze sembrerebbero provare il contrario.
Nei Vangeli il termine abbà ricorre in aramaico una sola volta, in Mc 14,36. Gesù chiama Dio con questo nome familiare proprio nel momento più drammatico della sua vita, quando, nel Getsèmani, chiede di capire il senso di una passione e di una morte apparentemente inutili e assurde. Credere che Dio è abbà non significa attendersi da lui di essere preservati dalle difficoltà, avere sconti sulle sofferenze della vita, essere protetti da grazie e miracoli, ma coltivare la certezza di essere sempre come bimbi fra le sue braccia, anche quando egli sembra essersi dimenticato di noi.

I profeti hanno introdotto un’importante immagine per descrivere i rapporti d’amore e totale fiducia fra Israele e Dio; l’immagine sponsale.
Dio ed Israele avevano cominciato amandosi perdutamente: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto” (Ger 2,2).
Questo matrimonio però era stato un susseguirsi di infedeltà da parte della sposa che, come una prostituta, concedeva il suo affetto a tutti gli altri dei. Il suo amore per il Signore era “come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce” (Os 6,4).
La storia d’amore fra Dio e Israele era stata molto burrascosa. Ma un giorno, lungo le rive del Giordano, comparve il Battista ad annunciare la notizia: “Esulto di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è giunta al culmine” (Gv 3,29). Sì, lo sposo, il Signore, era sceso dal cielo, era venuto a riprendersi la sposa infedele, era venuto a dimostrale tutto il suo amore e a riconquistare il suo cuore.
Dio non era felice senza l’amore della sua sposa, per questo ha compiuto un lungo viaggio, si è abbassato fino a divenire uno di noi, ad assumere la condizione di schiavo (Fil 2,6-11), a lavare i piedi della sposa; fino a lasciarsi uccidere senza reagire per mostrarle quanto la ama.
Un giorno si accostarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù rispose loro: possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni, quando lo sposo sarà loro tolto, allora digiuneranno (Mt 9,14-15).
Presentandosi con il cuore dello sposo, Gesù ha collocato su un piano diverso i rapporti fra Dio e l’uomo.
L’amore sponsale che il Signore si aspetta da noi pone definitivamente fine alla religione dei meriti perché chi ama non lo fa per ricevere una ricompensa. E pone fine anche al timore dei castighi. Il cuore di Dio vuole conquistare il cuore dell’uomo e questo non accadrà mai se la risposta dell’uomo è determinata dalla paura di un castigo.
“Nell’amore non c’è timore, al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore” (1Gv 4,18).

In tutta la Bibbia la vita pastorale è presentata con simpatia e in una società pastorale era naturale che la figura e il titolo di pastore fossero applicati al re e a Dio. Quali caratteristiche del cuore di Dio vengono messe in risalto da questa immagine?
La prima è il rapporto di fiducia reciproca, di comunione di vita fra il Signore e il suo popolo. Pastore e gregge vivono in simbiosi: la vita delle pecore dipende dal pastore, ma anche la gioia di questi dipende dal gregge. L’intimità fra Dio e l’umanità è ben rappresentata dalla scena deliziosa descritta nel Salmo 23 dove pastore e gregge sono presentati adagiati insieme sul manto erboso di un’oasi, accanto a una fonte di acqua fresca alla quale si sono dissetati dopo il faticoso cammino nel deserto arido e polveroso.
Nell’immagine del pastore sono presenti l’attenzione e la sollecitudine del Signore per chi è più debole e bisognoso di cure: “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11).  L’immagine è commovente, mostra la tenerezza di Dio nei confronti dei più deboli. Dolce, paziente, egli rispetta i tempi e i ritmi spirituali di ognuno. In Gesù Dio ha rivelato le caratteristiche del suo cuore di pastore.
Gesù è attento a ogni agnello del suo gregge, “chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. Cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce” (Gv 10,3-5). Non solo, Gesù è il pastore che dona la vita per amore del suo gregge: “Io sono il buon pastore e offro la vita per le pecore” (Gv 10,15). Sulla croce Gesù ha rivelato tutto il suo amore.
Un giorno, sbarcando vide molta folla che lo attendeva “e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore” (Mc 6,34).
Ama tanto la pecorella smarrita da dimenticarsi quasi delle altre 99; le lascia infatti sole nel deserto per andare in cerca di quella perduta e, trovatala, se la pone in spalla, felice, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,2-6).

“L’amico fedele è un solido rifugio, chi lo trova, trova un tesoro. L’amico fedele non ha prezzo, non c’è misura per il suo valore, è un balsamo di vita e lo trovano coloro che sono fedeli al Signore” (Sir 6,14-16).
La saggezza popolare ha da sempre insegnato che ci sono “amici più affezionati di un fratello” (Pr 18,24), che “un amico vuol bene sempre ed è nato per essere un fratello nella sventura” (Pr 17,17) e che “il profumo e l’incenso allietano il cuore, la dolcezza di un amico rassicura l’anima” (Pr 27,9).
Tra le immagini con cui la Bibbia presenta il cuore di Dio non poteva mancare quella dell’amico fedele, che non tradisce, non delude, non abbandona chi è in difficoltà.  E quando Dio è venuto tra noi ha avuto degli amici.
I suoi avversari hanno tentato più volte di diffamarlo accusandolo di essere un “samaritano”, un eretico e un giorno Gesù si decide a rispondere alle loro insinuazioni. Dice: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: È un pazzo. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11,18-19).
Prezioso questo “pettegolezzo” che circola sul suo conto! Ha provocato la risposta in cui vengono esplicitamente indicati i suoi amici, le persone che egli ama frequentare: gli emarginati, gli impuri, quelli che non contano nulla. Gli piacciono al punto che egli educa i suoi discepoli a coltivare gli stessi gusti: “Quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,13-14).
È amico di Lazzaro e delle sue sorelle delle quali frequenta sistematicamente la casa quando gli capita di trovarsi a Gerusalemme (Lc 10,38; Gv 12,1-2).
Un uomo, Gesù, che fa anche l’esperienza dolorosa di sentirsi tradito dall’amico Giuda. Durante l’ultima cena si dichiara amico dei suoi discepoli: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15,13-15).

Ospitalità è sinonimo di sollecitudine, benevolenza, cortesia nei confronti di chi, forse più che in una casa, chiede di essere accolto nei pensieri, nelle attenzioni, nella stima, nell’ascolto.
La caratteristica dell’ospitalità autentica è la gratuità e di questa sono modelli in Israele due personaggi: Giobbe e Abramo. Del primo si racconta che avesse fatto costruire la propria casa con quattro porte, una ad ogni punto cardinale, per evitare che i poveri faticassero a trovarne l’entrata. Di Abramo è ricordata l’accoglienza premurosa che ha riservato a Dio.
Sì perché Dio chiede di venire accolto da ogni uomo: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Chiede di poter entrare nella vita di ogni persona, di ogni società, di ogni istituzione e ama tanto la compagnia dell’uomo che è disposto anche a correre il rischio di essere rifiutato.
Quando ha assunto forma umana, Dio si è presentato nel mondo come un forestiero: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
Quanto sia doloroso per Dio questo rifiuto lo si può cogliere nelle lacrime di Gesù quando si è reso conto del destino drammatico che attendeva il suo popolo che non aveva voluto spalancare il cuore al suo messaggio di pace: “Quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19,41-44).
Al dolore del rifiuto si contrappongono i momenti di intensa gioia che Gesù sperimenta quando viene accolto. Nei vangeli lo troviamo spesso seduto a tavola in casa di qualcuno. Egli accettava gli inviti di tutti: quelli dei “giusti” e quelli dei pubblicani e dei peccatori.
A Gerico sente il bisogno di essere accolto da Zaccheo: “Scendi subito – gli dice – perché oggi devo fermarmi a casa tua”. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia” (Lc 19,5-6). Nella casa dove Gesù viene ricevuto entra sempre la gioia.

Salomone proclamava: “Grande è il nostro Dio, più di tutti gli dèi” (Es 18,11) e Mosè assicurava gli israeliti: “Il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi e Signore dei signori, è Dio grande, forte e terribile” (Dt 10,17). Egli è “il Signore grande e glorioso, mirabile nella sua potenza e invincibile” (Gdt 16,13)
La manifestazione somma della grandezza del Dio d’Israele doveva rivelarsi alla venuta del Messia: “Attendiamo la manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore” (Tt 2,13). Ed egli è apparso, in tutta la sua grandezza: bambino debole, povero, indifeso, “avvolto in fasce” da una dolce e premurosa mamma. Era solo l’inizio della manifestazione di Dio che ha avuto il culmine sulla croce. Da quel giorno tutti i criteri di grandezza sono stati capovolti.
Contempliamo commossi il bambino di Betlemme, eppure, impercettibile e subdola, riemerge in noi la pericolosa mentalità di questo mondo. Quel bambino – pensiamo – non rivela pienamente Dio, la cui identità noi scopriremo solo alla fine del mondo quando – chiusa l’infelice parentesi umana – egli tornerà ad essere e a mostrarsi grande come prima.
No, in quel bambino c’è tutto Dio ed è un Dio che non cambierà atteggiamento, che non riserverà sorprese.
Un Diobambino non può che amare i bambini.
Un giorno, lungo la via, i discepoli si sono accapigliati per stabilire chi di loro fosse il più grande, Gesù allora “prese un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. (Mc 9,35-37).
Un altro giorno alcune mamme presentarono a Gesù i loro figli affinché li accarezzasse. I discepoli non gradirono questo eccesso di familiarità e di confidenza e si sentirono in dovere di sgridare e di allontanare gli intrusi.
Al vedere questo, Gesù si indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benedisse (Mc 10,13-16).

Realizzarsi, essere persone di successo, secondo i criteri di questo mondo, significa salire in alto, dominare, emergere, imporsi sugli altri.
I Vangeli riferiscono vari episodi spiacevoli, frequenti e meschine discussioni fra gli apostoli desiderosi di definire le precedenze, di stabilire chi fra loro fosse il maggiore. Non volevano accettare la proposta del Maestro di farsi piccoli, di scendere all’ultimo posto, di porsi a servizio dei più poveri. Per mettere in risalto questa legge fondamentale su cui si basa la comunità, Luca colloca durante l’ultima cena l’invito del Maestro a farsi servi degli altri. In questo contesto, le sue parole diventano il suo testamento, la sua ultima richiesta, dunque devono essere considerate come sacre e inviolabili.
“Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: I re delle nazioni le governano, e coloro che esercitano su di esse il completo dominio si fanno persino chiamare benefattori. Fra di voi non così! Ma il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).
Scrivendo ai cristiani di Filippi, Paolo ha introdotto nella sua lettera uno inno stupendo (Fil 2,6-11) in cui è narrata la discesa del Figlio di Dio che esisteva da tutta l’eternità.
In questo movimento di discesa non si è fermato ad un livello elevato. Non si è inserito fra gli aristocratici, fra i personaggi illustri che sfoggiano bellezza e ricchezza, esibiscono forza, detengono il potere. Avrebbe attirato su di sé l’ammirazione del mondo, sarebbe stato considerato un uomo di successo. Invece ha scelto di condividere la condizione dello schiavo, di colui al quale i romani riservavano la morte di croce. Un fallito agli occhi degli uomini, ma il Signore lo ha esaltato. Lo ha riconosciuto come “l’uomo autentico”, come colui che riproduce perfettamente il volto del Padre.
Sì, Dio non è venuto fra noi per recitare un copione, ma per rivelarci chi egli è, per natura: non colui che pretende di essere servito, ma Amore disposto sempre e solo a servire.

Nei sarcofagi dei faraoni si trova spesso rappresentata la scena del giudizio di Dio. Si vede Anubis che prende per mano il defunto e lo accompagna da Osiride e, al centro, c’è la classica bilancia con i due piatti in perfetto equilibrio. Su un piatto c’è la piuma simbolo della giustizia e sull’altro il cuore del defunto che deve essere più leggero della piuma.
È questa l’immagine di giustizia che noi abbiamo, è la giustizia forense che prevede l’applicazione rigorosa della legge. Fare giustizia è sinonimo di condannare, giustiziare è eseguire la pena di morte, giudicare indica, nel linguaggio comune, dare pareri negativi.
Il Dio giudice presentato da Gesù non è quello dei nostri tribunali.
Gesù esclude positivamente che il Padre pronunci un giudizio di condanna contro i suoi figli: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17).
Il Dio predicato da Gesù non si vendica del male e vuole soltanto la vita dell’uomo. Questa è la sua giustizia. Dio è giusto quando si comporta da padre, quando si comporta da Dio. Quando Israele chiede la sua giustizia, gli chiede di comportarsi da Dio, non da uomo.
Il cuore di Dio giudice non è quello del giustiziere, è sempre quello del Padre che ama i suoi figli e fa loro soltanto del bene. Il suo giudizio non è una minaccia di castigo.
Di fronte alle decisioni che è chiamato a prendere, l’uomo sente molti giudizi, molti inviti a fare scelte. Quali lo portano alla vita e quali gli indicano cammini di morte?
Ecco giungergli in soccorso il giudizio di Dio che gli suggerisce: Quando sulla terra si concluderà la tua storia, quando rimarrai solo con te stesso e con Dio, un solo bene ti risulterà prezioso: l’amore. La tua vita sarà considerata riuscita o fallita a secondo dell’impegno profuso in favore dei fratelli che avrai avuto al tuo fianco.
È questo il giudizio che Dio pronuncia in ogni momento ed è un giudizio che ci salva dalle scelte sconsiderate che siamo sempre tentati di fare.

Dio è sempre stato invocato per ricuperare la salute del corpo. Ma il Dio d’Israele è colui che interviene come medico che cura le malattie spirituali.
Di fronte all’infermità del suo popolo il suo cuore di medico si commuove e interviene: “Perché gridi per la tua ferita? Io ti ridonerò la salute – dice il Signore – e curerò le tue piaghe” (Ger 30,15.17). “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”; “egli risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (Sl 103,3; 147,3).
Per mostrarci come gli sta a cuore la nostra salute fisica e morale, il Signore è venuto nel mondo e in Gesù si è fatto medico dei corpi e delle anime.
La donna che toccava anche solo un lembo del suo mantello rimaneva curata. Il lebbroso, emarginato e simbolo del peccatore lontano da Dio, era accarezzato da lui e subito diveniva puro. Con la sua mano risollevava gli storpi, rimetteva in piedi i paralitici, ridava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti.
Guariva le persone angosciate dalla paura di Dio e i peccatori che, stando in fondo al tempio, non osavano neppure alzare lo sguardo perché si ritenevano giudicati e condannati. Sollevava dall’angoscia e dall’emarginazione, rompeva le catene dell’oppressione. Ovunque giungeva il suo messaggio avvenivano cambiamenti radicali, germogliava una nuova vita.
Gesù aveva uno sguardo irresistibile, uno sguardo che guariva anche le malattie della mente e del cuore, persino la più incurabile, l’attaccamento al denaro.
Levi era intento a riscuotere i dazi (Lc 5,27-28). Era all’apice del successo come esattore quando – senza alcuna ragione plausibile – tutto ciò che fino a quel momento aveva dato senso alla sua vita perse valore. Si alzò, abbandonò tutto e seguì il Maestro. Quale misteriosa forza lo ha guarito? Lo sguardo di Gesù.
Ma lo sguardo più bello è quello che ha curato Pietro dalla disperazione. Rinnegato il Maestro, Pietro si stava allontanando, ma Gesù, voltatosi, lo guardò, e Pietro, uscito fuori, scoppiò a piangere (Lc 22,61). Si era reso conto che Gesù aveva capito la sua debolezza e non lo condannava.

È Marco che, più degli altri evangelisti, mette in risalto l’aspetto umano di Cristo, Dio, sì, ma anche uomo in tutto come noi, non soltanto per l’aspetto fisico esteriore, ma perché condivide i nostri sentimenti, la nostra sensibilità, le nostre passioni. Ha provato come noi i dubbi, le ansie, le paure, la tristezza, le angosce e “ha sentito terrore e sgomento” di fronte alla morte (Mc 14,34). Ha gioito delle tenerezze dell’affetto e ha sofferto le delusioni dell’abbandono e del tradimento. Tutto come noi, tranne il peccato (Eb 4,15).
Come ogni uomo che si deve guadagnare il pane col sudore della sua fronte, Gesù ha svolto un lavoro, un lavoro umile, che lo ha accomunato ai poveri della terra.
Le pagine evangeliche sono una provocazione, un invito a rivedere l’immagine stereotipa del Cristo distaccato, sempre calmo, impassibile, imperturbabile.
Un giorno Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao e vi incontra un uomo con una mano paralizzata. È sabato e si pone il problema: sarà lecito curarlo? Si potrà fare del bene nel giorno in cui la legge prescrive il riposo assoluto? Attorno a lui si raduna un gruppo di farisei, i custodi zelanti delle tradizioni. Scrutano ogni suo gesto, soppesano ogni sua parola per coglierlo in fallo.
È a questo punto che Marco sottolinea due emozioni molto umane – e per questo sempre un po’ sorprendenti – di Gesù. Di fronte alla malvagità subdola, al silenzio astioso dei suoi avversari egli si rattrista e li guarda tutt’intorno, con indignazione (Mc 3,5).
Più di ogni parola, più di ogni commento, il suo sguardo rivela la sua presa di posizione netta contro l’ipocrisia di chi utilizza la pratica religiosa per schiavizzare, non per liberare l’uomo. All’indignazione che già ci ha lasciato un po’ sconcertati, qui si aggiunge la tristezza, quello stato d’animo, quella malinconia che anche noi proviamo quando siamo costretti a rassegnarci, delusi ed impotenti, di fronte a una realtà che ci amareggia.
Dio che si rivela in Cristo non è colui che può fare ciò che vuole, ma un Dio dal cuore d’uomo, un cuore che sa attendere e accetta di andare incontro anche al rifiuto, alla delusione e alla sconfitta.

Argomenti: Cuore
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