Il patromionio spirituale dehoniano
Intervento di padre Enzo Brena, ad Albino, il 21 ottobre 2018
Per gli “Amici della Scuola Apostolica, onlus”
Parlo a voi che, certamente, non siete digiuni quanto alla spiritualità di padre Dehon. Quindi sapete bene che, quando si utilizza il termine dehoniano non si sta parlando di alieni, ma si fa riferimento ad una persona Leone Dehon, sacerdote francese, nato nel 1843 e morto nel 1925, nella cui intuizione spirituale e sociale molte persone, negli ultimi 140 anni, hanno riconosciuto la possibilità di dare senso alla loro vita. Da lui e nata la congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, detti appunto dehoniani.
Presentare il carisma dehoniano è un compito complesso, che richiede riflessioni approfondimenti di tipo biblico, teologico, spirituale e sociale. Il mio sarà un intervento semplice, non certo sistematico, composto di flash, che trascurerà molte cose, lo dico soprattutto per coloro che conoscono bene padre Dehon.
Parto da una simpatica esperienza di qualche anno fa. Al termine di un incontro in una parrocchia un signore arrivato notevolmente in ritardo all’incontro (il classico curioso che partecipa con riserva), si avvicina e mi chiede: “Mi scusi … che cos’è lei? Un demoniano?” “No, sono un dehoniano, con la “h”.” E poi aggiunge: “Ma che cosa fanno di particolare i dehoniani? Non so i francescani li riconosci subito: hanno i sandali, il saio, … fratello sole sorella luna, la povertà … e voi perché ci siete? Che cosa avete da dire?” “L’amore” rispondo con una certa fretta. “Eh già! L’amore sai che scoperta, non è molto originale dai!” Chiedo: “Perché? Non le interessa l’amore?” “Certo che mi interessa. Interessa tutti, si sa. Tutti ne parlano, lo desiderano, ma tutti sanno anche che “amore è eterno miraggio…”.” “Sì” replico io giocando il jolly “ma io sto parlando dell’amore di Dio.” “O mamma!” Esclama tra meraviglia e delusione. “L’amore di Dio! Bella cosa, per carità ma si guardi intorno: ha visto in che casini viviamo? Ma chi l’ha mai visto l’amore di Dio!?!”
Appunto: chi l’ha mai visto l’amore di Dio? Nella risposta a questa domanda trova senso la scelta di vita di padre Dehon e di chi condivide lo stesso ideale. Dio non si vede. Nessuno l’ha mai visto. E se non si può vedere Lui non è possibile neppure vedere il suo amore. Logica elementare.
Ma l’uomo si vede. L’uomo vive, mangia, beve, dorme, lavora, ama. Il percorso interiore di padre Dehon prende le mosse da questa presa di coscienza: in Gesù di Nazareth Dio si fa uomo per rendere visibile il suo amore, per rivelarne la misura incommensurabile, per dire che il suo amore è tutti, incondizionatamente.
Ma padre Dehon e anche molto consapevole che, facendosi uomo, Dio consegna a noi il testimone di questo mistero di incarnazione che regge la storia. Una consegna che potremmo esprimere così: l’amore di Dio è realmente presente, visibile ed efficace quando qualcuno accetta di farsene segno, strumento, testimone.
Davvero intrigante questa proposta di Dio, che valorizza al massimo la nostra libertà, la nostra responsabilità nella storia, e che esprime nello stesso tempo quel nostro desiderio di senso, di assoluto e di pienezza di vita che affonda le sue radici nel flusso vitale di Dio stesso.
La storia dell’umanità e della Chiesa ha visto una schiera di uomini e donne incarnare il Vangelo e lasciare un segno visibile dell’amore di Dio per i suoi figli.
Padre Dehon, e i dehoniani dietro di lui, hanno scelto di essere un segno concreto dell’amore di Dio nella forma specifica della disponibilità motivata dalla carità (oblazione) e del servizio della riconciliazione (riparazione), come stile di vita e come risposta, personale e comunitaria, ai tanti contrasti che da sempre segnano e feriscono la storia umana. Un ideale che per noi si condensa in due espressioni pregnanti della nostra identità: essere “profeti dell’amore” e “servi della riconciliazione”, affinché si realizzi pienamente il regno di Dio nel cuore di ogni persona e nella società.
Come è cominciato tutto questo? Nei decenni a cavallo dell’ottocento e novecento, quando in Europa metteva radici il positivismo scientista di cui oggi vediamo i tanti frutti di progresso, ma anche evidenti derive di degrado sociale e morale, padre Dehon diviene sempre più consapevole che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, per dirla con Saint-Exupery, che il segreto della vita lo si intercetta con il cuore.
Questa esperienza interiore è fondamentale per la sua storia di uomo e di prete. Essa lo aiuta a contemplare come centro di tutto il creato e di tutta la storia il cuore di Cristo e il cuore dell’uomo, in una relazione tutta incentrata sull’amore.
Quando si parla di cuore e di amore, la tentazione istintiva e di pensare a qualcosa di intimistico, una relazione stile “due cuori e una capanna”. Ma la spiritualità di padre Dehon non si riduce affatto a un’esperienza intimistica poiché è il frutto di un’empatia stabilita con il cuore di Cristo che, come effetto immediato, non lo chiude in un rapporto tête-à-tête con Dio, tra le mura rassicuranti di una cappella, ma piuttosto lo invita a spalancare le porte e gettarsi nella mischia, nella società del suo tempo, e lanciarsi in un concreto impegno sociale: dottrina sociale della Chiesa, sostegno del mondo operaio, animazione della politica in senso cristiano, formazione spirituale e sociale del clero… al punto che ai suoi religiosi raccomanda energicamente: “fuori dalle sagrestie!”. Questo è il senso vero della spiritualità insegnata da padre Dehon: non intimismo autoreferenziale, ma una fede che si impegna che prende responsabilità della storia.
Da dove attingeva la sua ispirazione padre Dehon?
Da Cristo, ovviamente. In estrema sintesi potremmo dire che la sua ispirazione obbediva a questo criterio: guardando Cristo, scopri l’uomo! Non è una trovata teologica, ma un sincero apprezzamento dell’opera di Dio. Davvero, quando contempli Gesù Cristo e il suo modo di vivere, scopri l’uomo così come si specchia negli occhi e nel cuore di Dio. Proprio guardando a Gesù Cristo, Dehon contempla il cuore di Dio “che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16) e che, purtroppo, non è ricambiato dall’uomo con la stessa attenzione e amore. E, d’altro canto, in Cristo vede anche l’uomo in tutta la sua dignità e ricchezza, così come Dio l’ha da sempre pensato e voluto: “figlio”, vivente del suo stesso Spirito. E decide di dedicare la sua vita a questo scopo: che tutti possano scoprire e vivere appieno questa identità di figli.
Ritorno all’interrogativo di poco fa: chi mai ha visto l’amore di Dio?
La risposta di padre Dehon e dei dehoniani, sull’esempio di Cristo, si condensa in una parola: “Eccomi!”. Il patrimonio ideale/spirituale dehoniano poggia tutto su questa risposta, che l’autore della lettera agli Ebrei pone sulla bocca di Cristo: “Ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà”. (10,5ss). Padre Dehon ci invita a scoprire il dato primario della nostra identità in questo “Eccomi”, come a ricordarci che Dio non si interfaccia con le vittime sacrificali di un tempo, o con i fioretti quaresimali, ma cerca un volto, un cuore, una volontà… quelli dell’uomo.
Mi soffermo su questa espressione telegrafica (eccomi!) che può suonare scontata o inflazionata. Essa costituisce la porta di una libertà che si apre e si dichiara, è la base d’appoggio per esprimere ogni possibile disponibilità nei confronti di Dio e dell’uomo, ogni percorso che fa procedere anche nella scoperta della propria verità personale.
Sono sicuro che tutti voi sapete intuire l’importanza di questo atteggiamento per la nostra vita. Non avviene nulla senza che noi lo vogliamo o lo rendiamo possibile, senza questo “eccomi”. E se ci lamentiamo spesso di quello che ci accade nella vita e anche perché sovente siamo gente che subisce più che scegliere…
“Eccomi!” non è la risposta all’appello fatto dalla maestra o dal sergente istruttore, non è qualcosa di obbligato. Semmai è il segnale di una coscienza che prende posizione.
“Eccomi!” è la risposta che sgorga dentro quando ci si gioca in una relazione e si scopre di amare qualcuno. Non per nulla padre Dehon sente fiorire sulle sue labbra questa risposta imparandola da Gesù, “bevendola” in un certo senso dalla sua bocca e dal suo cuore aperto sulla croce, a partire dalla familiarità con Lui costruita frequentando la Parola e contemplando il dono di sé espresso nel mistero eucaristico (adorazione). L’eucaristia è l’eccomi di Cristo. E padre Dehon chiede a noi, suoi seguaci, di essere uomini eucaristici.
Perciò “eccomi!” equivale a un “ci sto!”, “sono pronto!”, “mi gioco!” qui, ora, in questa mia storia. Una storia che ancora non conosco fino in fondo, che non so come andrà a finire, ma sento il suo fascino… sento che ne vale la pena!… con Gesù sì, ne vale la pena!
Che cosa ci può guidare in questa intuizione, in questo slancio?
Un sentimento incontenibile di gratitudine, un grande desiderio di corrispondenza d’amore, un sogno di pienezza, di compimento di sé… Che meraviglia!
Si potrebbe scrivere un’infinità di libri sul mondo dei nostri desideri. Ma bastano il calendario, le vicende della vita, il lento procedere del tempo a mettere alla prova i nostri migliori sentimenti, i desideri, i sogni. E, nella nostra vita (consacrata o matrimoniale che sia), non usciamo mai dalla prova del tempo che passa, dalla quotidianità, così come ci siamo entrati: o si cresce o si regredisce, o ci si dona o ci si perde (in un mare di rimorsi, nell’insensibilità che indurisce il cuore, nella sensazione del vuoto interiore…)!
Questo per dire che non basta dire “eccomi… ci sto!” una sola volta: bisogna dirlo ogni giorno, sempre. È così che si apre la giornata di un dehoniano (atto di oblazione). E lo fa non per essere un “bravo ragazzo”, non per obbedire al fondatore o al Papa, ma perché questa è la legge della vita: se si vuol vivere e non solo sopravvivere, se si vuole crescere, se si vuole amare bisogna proprio “volerlo” e giocarsi nel quotidiano.
Gesù Cristo, e padre Dehon dietro di lui, ci ricorda che Dio “funziona” come il seme che, se non muore, non porta frutto. Al di fuori di questa prospettiva, tutte le dichiarazioni d’amore che ci sussurriamo teneramente negli orecchi, o i fervorini che elargiamo dai pulpiti sono solo chiacchiere. Se, cioè, il bene e l’amore che proviamo non si fanno concreti, non si fanno storia, non solo non sono veramente tali, ma possono essere una vera e propria contraffazione dell’amore, quando cioè non sono parte di un ideale che, coinvolgendo l’intelligenza, la volontà, la com-passione, si fanno storia, … possono costituire un evanescente illusione sentimentale, che nemmeno ci vede consapevoli di quanto siamo lontani dall’amore vero…
Dire il proprio “eccomi!” rendendosi disponibili all’Amore significa, infatti, riconoscere una verità fondamentale: l’amore non lo inventiamo noi!
L’amore non si inventa: lo si scopre, lo si impara, e su di esso si struttura la vita. È un mistero in cui si cresce lentamente, nel tempo di tutta una vita, se ci lasciamo condurre da questa misteriosa anima del mondo che ci affascina tutti e che impariamo a conoscere solo se diventiamo contemplativi, se impariamo il silenzio e la pazienza di riconoscere Dio all’opera nella vita nostra e degli altri, a fare tesoro di ogni esperienza quotidiana, lì dove la diversità dell’altro e le circostanze, prevedibili o imprevedibili, costituiscono il contrappunto puntuale di questo apprendimento.
Certo, l’amore si riflette anche nei nostri sentimenti, sogni, desideri… ma è sempre qualcosa di più di tutto ciò: è altro! Padre Dehon ci insegna che è un Altro da scoprire, conoscere, imparare, fare nostro con scelte e decisioni quotidiane che sono il frutto di una volontà illuminata dal progetto di bene di Dio.
Dire “eccomi!” significa mettere da parte i sogni di grandezza e sporcarsi le mani con la storia di ogni giorno, decidendo di esporsi, di offrirsi per essere luogo dove l’incontro con l’altro è possibile, come occasione di conferma, di sostegno, di servizio alla vita, poiché questa è la strada che porta all’amore vero, quello di Dio. Quell’amore vero che ci permette di evidenziare il valore dehoniano della “riparazione”, racchiuso nella formula “servi della riconciliazione”.
L’uomo è terribilmente maldestro, fa pasticci? Dio lo vuole ricondurre sulla via della vita, della comunione … e lo fa per mezzo dell’uomo, di uomini che si fanno strumento di speranza, di solidarietà, di perdono, di comunione.
“Servi della riconciliazione” è una formula impegnativa, che mi ha sempre intimidito: “e chi riesce a svolgere questa missione?”. Più che “riparatore” io mi sono sempre sentito “da riparare”! … Finché non ho un po’ capito che, prima di essere una missione da compiere è un dono da celebrare: il dono della vita e del perdono, realizzato definitivamente nel mistero pasquale di Cristo, da celebrare ogni giorno nell’incontro con l’altro.
Un principio vitale che, una volta messo nelle nostre mani, tenterei di esprimere pressappoco così: cerca il bene dell’altro, e troverai anche il tuo bene! Perché se ti metti al servizio del vero bene dell’altro cresci anche tu, esprimi la parte migliore di te, quella che riflette il cuore stesso di Dio. Che cosa c’è di più grande di dare la vita? È in questo che si esprime il meglio di noi, la nostra più importante fecondità: generare/alimentare la vita nell’altro!
Parlando di “bene” mi viene spontanea una breve digressione: oggi si fa un gran parlare di “piacere”, in ogni campo. È un must: non si fanno cose e non si vivono iniziative che non garantiscano un ritorno gratificante immediato.
Non ho nulla contro il piacere, anzi. Faccio una semplice considerazione: sembra parecchio latitante nel nostro modo di vivere il gusto, il piacere di “fare” il bene… Non gode grande popolarità. Ne gode molta di più la giustizia. Da questo punto di vista siamo abbastanza “sindacalizzati”! Basta vedere le nostre tensioni comunitarie, familiari, o di coppia, dove risuonano alti i soliti: “tocca te/tocca a me”, “io ho già dato… ci pensi qualcun altro”, “ah! io non centro… non ne voglio sapere “, “è colpa tua … arrangiati!”.
È proprio difficile! Ci manca il gusto di fare il bene. Fare il bene… punto e basta! Che bello essere capaci di questa libertà… anche se costa, anche se mi chiede di portare non solo la mia croce ma un po’ anche quella dell’altro.
E invece nella lista di ciò che ci piace sembra scomparso il godere nel mettere in circolo il bene, così… gratuitamente. Anzi, lo leggiamo come fosse soltanto espressione di sacrificio, inteso solo come qualcosa in uscita, in perdita, e non invece con un “sacrum facere”: fare qualcosa di sacro, cercare il bene, servirlo nell’altro, godere della crescita dell’altro, gioire perché supera i suoi problemi, perché vive con più libertà, perché non resta chiuso nei suoi psicodrammi ma impara a respirare aria pura, credendo in qualcosa/qualcuno più grande di sé…
Non abbiamo familiarità con questo tipo di godimento interiore, ma dovremmo impararlo, perché vale di più ed è decisamente molto più duraturo di ogni altro piacere/goduria/orgasmo che riusciamo a organizzarci… provare per credere!
I dehoniani vogliono condividere con tutti quelli che incontrano questa scoperta, formidabile nella sua semplicità: il senso della vita sta nel servirla, con tutto se stessi, dedicando a questo compito ogni nostra energia. Non per nulla l’icona che per loro simbolizza questo atteggiamento esistenziale è il cuore di Cristo squarciato sulla croce, atto finale e totale di un’esistenza vissuta tutta all’insegna di un solo scopo: essere una presenza d’amore, essere segno dell’amore di Dio. Che poi vuol dire promuovere la giustizia, difendere i più deboli, privilegiare gli ultimi, stima e rispetto per tutti, pace…
Vivere perché Dio regni in ogni persona con la sua vita e con il suo amore; fare tutto il possibile perché il fascino e la dedizione al bene crescano in ogni persona e nella società è, in estrema sintesi, il filo rosso che assembla il patrimonio di valori lasciato dal nostro fondatore. In una frase: vivere perché venga il suo Regno, perché si realizzi il suo sogno di comunione piena con l’uomo e tra gli uomini.
È un ideale alla portata di tutti poter arrivare a dire: “la tua crescita il tuo fiorire fino alla pienezza della vita è lo scopo della mia vita. Sono pronto a dare la vita perché questo possa avvenire…”. Se vogliamo essere grandi, se vogliamo essere veri… se vogliamo essere davvero ciò che siamo, figli di Dio, è così che dovremmo vivere!
Concludo con un’espressione che anni fa un presentatore televisivo amava ripetere: “comunque vada, sarà un successo!” Nella logica della fede questa espressione ha un significato liberante che mi richiama ad una consolante espressione della nostra Regola di vita: “Nonostante il peccato, gli insuccessi e l’ingiustizia, la redenzione è possibile, è offerta e già presente” (Costituzioni n.12). Che cosa significa?
Per costruire il mondo che Dio ha pensato non è necessario essere i primi della classe o chissà chi. Il suo Regno si realizza attraverso il nostro “eccomi… ci sto!”, con le tante contraddizioni che viviamo a livello personale e sociale. Ogni miglioramento comincia sempre dall’accoglienza e accettazione di quello che siamo, dalla materia prima che abbiamo a disposizione: è questa che Dio ama!
Padre Dehon ci ricorda la notizia liberante che Dio ci ama per la nostra povertà. Dio ci ama non quando siamo santi, perfetti o quando ce lo meritiamo. Non ci ama solo se e quando avremo superato la nostra debolezza o il nostro peccato, ma ci ama mentre siamo peccatori, proprio per questa nostra povertà, debolezza, paura che non potremmo mai sopportare se non incontrassimo il sostegno del suo amore, rispettoso e premuroso insieme.
Se non faccio un azzardo, ciò significa che la povertà dell’altro è la ragione vera dell’amore! Pensiamo a cosa significa questo per la nostra vita, comunitaria, coniugale, familiare…
Anche quando tutto sembra inutile, quando constatiamo i nostri insuccessi e sembra che non ci sia più niente da fare, padre Dehon ci insegna a riconoscere, invece, che “c’è tutto da fare!”, e possiamo farlo così come siamo, con tutti nostri limiti.
La libertà di chi accetta di amare come ama Dio pone in un atteggiamento rivoluzionario: non dobbiamo cambiare noi il mondo, non importa tanto trovare soluzioni definitive agli infiniti problemi del mondo ma, lì dove sei, nella tua storia, starci dentro con amore, compassione, rispetto, sollecitudine, misericordia, badando al cuore e al cammino di ogni persona… È questo che cambia il mondo… Così ha fatto Gesù. “La sua Via è la nostra via” (Costituzioni n.129).