
Omelia del card. Pietro Parolin,
nella solennità del Sacro Cuore di Gesù (19 giugno 2020),
presso la Casa Generalizia dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani)
Cari confratelli nel sacerdozio, cari sorelle e fratelli,
sono lieto di celebrare questa Solennità con voi, che siete consacrati in modo particolare al Cuore di Gesù. In questa giornata si rinnova in ciascuno di voi la sua chiamata, alla quale confermerete la vostra adesione rinnovando i voti prima della presentazione dei doni all’altare, unendo così le vostre vite all’offerta di Cristo.
Vorrei però dire che il suo Sacratissimo Cuore, «re e centro di tutti i cuori», invita non solo voi, ma ogni cristiano a ritrovarvi i fondamenti della propria identità spirituale. Se infatti ci ponessimo la domanda: «Chi è il cristiano?», dovremmo stare attenti a non incentrare la risposta su noi stessi, ma su quanto il Signore compie per noi e in noi. In altre parole il cristiano, prima di essere una persona che crede in Qualcuno e fa qualcosa, è colui che vive nella certezza di essere amato da Dio, sempre e comunque, indipendentemente da quello che pensa e da come si comporta.
Lo ha ricordato san Giovanni nella seconda Lettura: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4,10). Al riguardo Papa Francesco ha recentemente affermato: «Si potrebbe pensare che a unirci siano le stesse cose che crediamo e gli stessi comportamenti che pratichiamo. Ma c’è molto di più: anzitutto siamo figli amati di Dio» (Omelia di Pentecoste, 31 maggio 2020). Ora, il Sacro Cuore manifesta questa realtà in modo esemplare, meglio di ogni altro simbolo o discorso.
Gesù, che nel Vangelo loda il Padre per aver rivelato i misteri del Regno ai piccoli, proprio all’umile anima di santa Margherita Maria Alacoque, di cui ricordiamo il centenario dalla canonizzazione, ha rivelato i misteri del suo Cuore «mite e umile» (Mt 11,29).
Prendo dunque spunto da santa Margherita: non sono molte le sante che portano questo nome, piuttosto originale. Esso è infatti molto antico, affonda le proprie radici nel sanscrito e svela un significato sorprendente: Margherita vuol dire «perla». Il pensiero va alla celebre parabola di Gesù: «il Regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,45-46). Viene immediato paragonare il mercante con l’umanità e la perla con il Regno dei cieli: siamo infatti noi, mercanti in cerca di tesori nella vita, a fare la scoperta unica e preziosa di Dio.
Ma la figura di santa Margherita, messaggera non tanto dell’impegno umano per trovare l’Altissimo, bensì della condiscendenza di un Dio ostinatamente innamorato dell’uomo, può suggerire un’altra lettura. Accanto a quella convenzionale, il testo ne concede infatti una più ardita e non meno appassionante, secondo cui la perla preziosa non rappresenta il Regno dei cieli, ma noi. E Dio è colui che si mette in cerca dell’umanità, sua perla preziosa. Per «acquistarci» è disposto a spendere tutto. Ecco l’inizio del Regno: Dio ci cerca.
È quanto santa Margherita, fedele al suo nome, ci ha testimoniato. Il Signore le rivelò di avere un «Cuore appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare». Il Sacro Cuore, dunque, non esprime solo l’amore misericordioso di Dio, ma anche il suo reale innamoramento nei riguardi dell’uomo. Spesso abbiamo la sensazione che il Signore ami noi meschini solo per pura misericordia. Ma il suo Cuore ci rivela che in realtà si compiace di noi, creati a sua immagine e somiglianza per essere figli amati. Quanto in noi c’è di malvagio è un dato certamente innegabile, ma secondario: è frutto di deviazioni, di deformazioni. Ne ha accennato domenica il Papa, dicendo che Gesù «è contento di farsi intimo a noi e, ogni volta che lo riceviamo, ci ricorda che siamo preziosi. E non solo perché è generoso, ma perché è davvero innamorato di noi: vede e ama il bello e il buono che siamo. Il Signore sa che il male e i peccati non sono la nostra identità; sono malattie, infezioni» (Omelia per il Corpus Domini, 14 giugno 2020).
Credo che questo discorso sia importante non tanto per guadagnare uno sguardo più positivo su noi stessi – aspetto comunque non trascurabile nei tempi che viviamo – quanto per affrontare meglio le insidie che minacciano la nostra identità spirituale. Se ci chiedessimo perché abbiamo dentro di noi tante paure e perché vizi e peccati ci inquinino il cuore, e se scendessimo in profondità in cerca delle cause ultime, potremmo giungere alla conclusione che esse in buona parte consistono nel fatto che ci dimentichiamo quanto siamo preziosi agli occhi di Dio. Scordandoci questo, tendiamo ad accontentarci di poco, a trascurarci, talvolta persino a ritenerci «sbagliati». Da qui a cercare altri ripieghi e surrogati il passo è breve, per trovarci poi affezionati a qualcosa che deturpa la nostra vera bellezza. Ma il motivo per cui abbiamo intrapreso vie e cercato soddisfazioni che a Dio non piacciono, gettando le nostre perle al porci, è la dimenticanza di quanto siamo preziosi ai suoi occhi. Perciò restituire centralità al suo amore e vederci anzitutto come figli amati non è solo benefico, ma necessario per impostare correttamente la vita spirituale.
L’atteggiamento corrispondente è dunque anzitutto quello della gratitudine e della gioia, come ci mostra Gesù, aprendosi nel Vangelo alla lode commossa del Padre: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra…» (Mt 11,25). Potremmo proseguire: perché nel Cuore del tuo Figlio ci hai rivelato il tuo palpito incessante di amore per noi. Il Cuore di Cristo costituisce infatti la prospettiva privilegiata per contemplare il suo dono continuo per noi. Dono continuo, come quello del suo Corpo e Sangue che abbiamo celebrato domenica. Ma il Signore non si è accontentato di lasciarci tutto se stesso nell’Eucarestia: dalla croce ci ha lasciato anche il suo affetto più caro, sua madre. Poi, nel momento della morte, ci ha consegnato il suo stesso Spirito. Al culmine, dal suo Cuore squarciato ha effuso sangue e acqua, ovvero il mistero della Chiesa e dei Sacramenti. Tutto, per noi figli amati, è un dono continuo: ecco il secondo aspetto che suscita la contemplazione del Sacro Cuore.
Un terzo aspetto, che vorrei desumere dalla seconda lettura, va tenuto insieme a quelli accennati, perché l’amore non corra il rischio di diventare un concetto sentimentale e privato. San Giovanni prescrive infatti la necessità di un amore concreto e comunitario: «Dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4, 1 1). L’Apostolo che poggiò il capo sul petto del Signore non si stanca di ripeterlo nelle lettere, facendo leva non tanto sui sentimenti quanto sul dovere, sul comandamento di Gesù. Anticamente si narrava che l’evangelista, invitato presso le prime comunità cristiane a raccontare quanto aveva appreso dalle labbra del Signore, ripeteva sempre e ovunque una sola cosa: «Amatevi gli uni gli altri». Non aggiungeva altro, bastava questo. Il verbo amare è transitivo, richiede cioè sempre un complemento oggetto, volti e persone a cui voler bene. Il Santo Padre ha sottolineato spesso l’importanza della concretezza dell’amore e della spiritualità, onde evitare il rischio di una fede disincarnata, da lui indicato come gnosticismo: un «un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo», ma anche una dottrina senza mistero, una preghiera senza carità, una meditazione senza i volti dei fratelli e delle sorelle, una comunione senza perdono, una vocazione senza dono di sé (cfr Esort. apost. Gaudete et exsultate, 36 ss.).
Vorrei, infine, soffermarmi un poco sul Vangelo, per trarne qualche spunto pratico a seguito di una premessa importante. Gesù afferma: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» (Mt 11,27). Questa premessa ci porta davvero al fondamento di tutto, al cuore della vita trinitaria. Tutto mi è stato dato dal Padre significa che il Padre non ha trattenuto nulla per sé, dando ogni cosa al Figlio. È forse il mistero più insondabile di Dio. Per noi amare è sempre donare qualcosa: ci è impossibile, se non a parole, donarci completamente. Anche la più santa delle madri, pur volendolo, non potrà mai donare il 100% di se stessa al figlio. In Dio l’amore è invece donazione totale, nulla viene trattenuto. È quanto ribadiamo ogni volta nella Professione di fede con le parole Dio da Dio, Luce da Luce. In Dio questo amore senza riserve, umanamente impossibile, costituisce non solo una qualità, ma il modo stesso di essere, la ragione per cui le persone sono fra loro consostanziali. Ebbene, questa scaturigine dell’essere, che risiede nel Padre, l’abbiamo scoperta in Gesù: il suo Cuore ne è l’indicatore, ed è perciò l’icona vivente dell’amore divino. Ecco perché Cristo subito dopo aggiunge che «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
Da qui segue la prima e più importante conseguenza per noi: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi» (v. 28). E chi, verrebbe da dire, non è stanco e oppresso? Il punto è però un altro: se tutti siamo affaticati e spremuti dalla vita, non tutti, anche tra i discepoli a cui Gesù si rivolge, vanno a lui. Venite a me: quanto spesso invece preferiamo chiuderci in noi stessi, rivangare nei torti subiti e nei nostri problemi irrisolti, anziché buttarci tra le braccia del Signore? Se non lo facciamo ogni giorno rischiamo di andare a cercare conforto non in ciò che libera, ma in ciò che opprime: di farci soggiogare da quel che ci fa male.
Il Signore lo sa, sa che nella nostra natura fragile e ferita è insito il bisogno di ancorarci a qualcosa, ma allo stesso tempo conosce quant’è grande il rischio che i sostegni che cerchiamo, le nostre soluzioni, siano peggiori dei problemi che abbiamo e anziché liberarci ci schiavizzino. E dopo averci detto «Venite a me» ci rivolge una seconda esortazione: «Prendete il mio giogo sopra di voi» (v. 29). Dal dizionario si evince che il giogo è lo “strumento utilizzato per l’attacco dei bovini usati come bestie da tiro”. Perché Gesù ha utilizzato quest’immagine, non certo la più cortese nei nostri riguardi? Occorre comprendere a che cosa serve il giogo: a non andare storti nel tracciare i solchi, così che alla fine la semina in essi porti più frutto.
Ora, qual è il giogo che ci permette di non seguire strade storte e di portare frutto nella vita? Quello del Signore, cioè la croce: quella croce che troneggia sul Cuore di Gesù e che non va ricercata ma accolta, “presa”, come chiede Cristo. È un giogo a prima vista pesante, che tuttavia con Gesù diventa dolce e leggero. E soprattutto fruttuoso. È il giogo che prese santa Margherita, incompresa dalle sorelle e spesso malgiudicata dai superiori, tuttavia lieta di partecipare così alle umiliazioni di Gesù e di essere consolata dalla sua tenerezza.
Questo giogo ci unisce a Lui e ci ricorda che nella Chiesa si porta frutto non andando ciascuno per la propria strada, ma stando insieme, «appaiati», come indica l’immagine del giogo. Non è nelle nostre capacità che troviamo motivazioni convincenti per rimanere uniti, ma nel Signore. È donandogli, come offerta d’amore, quel che di sgradito ci accade che portiamo frutto e rafforziamo l’unità. È solo così che lo imitiamo. È solo così che facciamo nostro l’invito che Egli rivolse a santa Margherita Maria: «Almeno tu, amami!».