3 Febbraio 2024 Marco 6, 30-34

Giovanni Nicoli | 3 Febbraio 2024

Marco 6, 30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.

Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Dopo la missione, Gesù offre ai discepoli un po’ di sana solitudine: venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’. I discepoli sono felici nel raccontare come è andata la loro missione, c’è molta gente intorno a loro, sarebbe il momento di raccogliere un po’ di applausi, Gesù li invita invece ad andare in disparte.

Questo atteggiamento è l’inserimento che Gesù vuole operare nei confronti dei discepoli nel mondo della solitudine e, soprattutto, nel mondo della gioia. La gioia è un sentimento interiore, intimo, è una contentezza composta di soddisfazione non gridata. Non dobbiamo confonderla con il piacere che è sempre legato ad una parte del nostro corpo. La gioia trascende il corpo.

La gioia non deriva mai dall’altro, dall’approvazione della gente. Il piacere è dato dal pubblico, e si chiama successo che è totalmente altro rispetto alla gioia. Il successo è l’approvazione che altri danno, la gioia è l’approvazione che noi diamo a noi stessi. Tra la gioia e il successo c’è un abisso. Le persone di successo difficilmente vivono la gioia perché quanto maggiore è il successo, la vittoria cioè del burattinaio che ti fa fare quello che ti dà successo, tanto maggiore è la lontananza da quello che vorremmo essere. La gioia è indicibile, è silenzio, è solitudine e commozione: sono lacrime di gioia.

Cercare il successo necessita di essere sempre sul palcoscenico e il metro è l’applausometro; vivere per la gioia necessita l’essere e il metro è dato dal rispetto di se stessi. Le persone della gioia guardandosi allo specchio sorridono; le persone di successo corrono subito al trucco perché non sanno stare senza gli altri, devono avere intorno sempre approvazione. La persona gioiosa sa che da soli si possono fare tante cose utili, e le fa per soddisfazione personale, per gratuità.

La nostra è la società del successo, non della gioia. Un successo misurato dal denaro. È quello che tanti di noi hanno in testa: tentare la fortuna per avere successo.

Per la nostra società la gioia è roba da falliti, perché la gioia non ha mercato. La gioia è legata a piccoli accadimenti, a un gesto che rende sereno chi soffre, ad una lettura che ci fa capire chi siamo. È la gioia dell’onestà, anziché quella della furbizia. La furbizia serve al successo, non alla gioia. Così la disonestà.

Il successo richiede sempre maggiore successo ed è caratterizzato dall’invidia, cioè la rabbia per non essere come l’altro. Il successo è avaro, la gioia è diffusiva e si trasmette e si coglie nell’altro. Un bambino in braccio alla mamma è gioioso; un vecchio visitato dall’amico è gioioso; un povero che riceve un gesto di amicizia diventa gioioso.

È nella gioia che uno diventa capace di sentire il dolore del mondo, non nel successo. Infatti nella solitudine e nella gioia uno ha la percezione di sé e può avere la percezione dell’altro. Al successo tutto questo è sconosciuto.

Dobbiamo essere attenti a cogliere il fatto che la gioia non è l’esperienza che segue la fine di un dolore: questo è piuttosto sollievo, fine di un male. La gioia è un positivo sentire. La gioia è rinuncia consapevole al successo ascoltandosi la nona sinfonia di Beethoven.

Che pena molti uomini di potere e di successo che non sanno gustare il sorso d’acqua ad una sorgente. Gli impresari del successo che hanno sempre bisogno di rubare soldi e applausi agli altri, non hanno nulla a che vedere con i tanti “nessuno” che vivono momenti illuminanti di gioia. Perché la gioia è un “mi illumino d’immenso”, come diceva Ungaretti. La gioia è umana, è un sentimento, non è un’illusione.

Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’ dalla smania del successo. Entriamo nel mondo della vera gioia che è nascosta, lontana dai riflettori. Ma che volete che importi se gli altri non lo sanno che mi sto gustando una banana mozambicana: il gusto è tutto mio!

L’inno alla gioia della nona sinfonia di Beethoven termina con queste parole: “Mondo, tu non conosci il creatore. Cercalo nella volta celeste! Egli deve essere da qualche parte, sopra le stelle”.

Godiamoci nella gioia solitaria i nostri bei tramonti, le nostre belle albe: condividiamole nella loro gioiosa bellezza, lasciando da parte ogni pretesa di applauso.

La gioia è sempre del Risorto. Gioire è il segno che non abbiamo vanificato il tempo assegnatoci ma l’abbiamo lavorato e trasformato in eternità.

 Avveduto

Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’ dalla smania del successo. Entriamo nel mondo della vera gioia che è nascosta, lontana dai riflettori.

PG

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