Articolo di Anonimo Bergamasco
E dopo il coronavirus? Molti si affrettano a dire che nulla sarà più come prima. Speriamo sia così… Ci hanno sempre insegnato che “la storia è maestra di vita”; ma fino ad ora abbiamo imparato ben poco.
Al termine della seconda guerra mondiale, ed esattamente il 26 ottobre 1945, e nata l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) al fine di assicurare il mantenimento della pace e di promuovere la cooperazione internazionale. Quando venne costruito il palazzo dell’ONU, sul muro di ingresso venne scolpita la frase tolta dal libro del profeta Isaia: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra”. (Isaia 2,4) E ancora il profeta Isaia racconta così il mondo rappacificato: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme è un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”. (Isaia 11,6-9). La profezia di Isaia era stata scelta come progetto per la storia dell’uomo. Quella frase è ancora là, scolpita nel muro, ma il progetto non è stato realizzato, anzi!
Non c’è mai stato nessun periodo della storia dell’umanità nel quale l’uomo ha accumulato “strumenti di morte” come nel nostro tempo. Ne abbiamo abbastanza per distruggere non solo il nostro pianeta, ma molti altri, e quindi ne abbiamo abbastanza per distruggere l’intera umanità, per distruggere ogni forma di vita, per auto distruggerci: questa è la follia.
Ma come sarà dopo?
Noi purtroppo spesso pensiamo al futuro come alla proiezione nel tempo del nostro passato, migliorato, se possibile, in quegli aspetti negativi che ci hanno fatto soffrire.
Quando Gesù ci parla del futuro ce ne parla con il termine risurrezione, rinascita, mondo nuovo; parla di cieli nuovi e di terra nuova. La Pasqua non è il futuro, ma il nuovo, il completamente nuovo; è l’irruzione di Dio nella storia con la persona di Gesù che si presenta come alternativa alla vita del mondo. All’inizio del capitolo 21 dell’Apocalisse leggiamo: “È vidi un cielo nuovo è una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udì allora una voce potente che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E colui che sedeva sul trono disse: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”.
Ma quando tutto questo? La risposta era: nell’aldilà, dopo, alla fine… nel frattempo rassegnati e sopporta!
Che brutto sentire dire a persone che soffrono ingiustizia e persecuzione: abbi pazienza perché nell’aldilà con la risurrezione ti verrà fatta giustizia, ti verrà restituito tutto con gli interessi. In nome di Cristo risorto si è predicata la rassegnazione che è l’esatto contrario del frutto della risurrezione: la speranza.
Liberi per amare
In Gesù morto e risorto Dio si presenta a noi come un innamorato dell’umanità, di ogni persona. Credere nella risurrezione significa innamorarsi e portare fino in fondo le conseguenze dell’amore. Solo chi è innamorato è veramente libero e si comporta in modo totalmente nuovo che passa per un ubriaco, per un pazzo, per uno fuori di testa. Chi ama fa cose da pazzi: mette tutto in comune, rischia la vita, perdona il nemico, …
Forse solo questa è la lingua con la quale possiamo raccontare la risurrezione, con la quale possiamo trasmettere questo messaggio di per sé incredibile. È la lingua nuova parlata dalla prima comunità cristiana di Gerusalemme: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio, e, spezzando il pane di casa in casa, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore”. (Atti degli apostoli 2,42-47)
I pagani dicevano: “Guardate come si vogliono bene! Sono disposti a dare la vita l’uno per l’altro”.
La risurrezione oggi
La risurrezione non è per l’aldilà, per il dopo; ma è per l’aldiqua, per oggi, per subito. Non è roba dell’altro mondo, ma siamo chiamati a farla diventare “roba di questo mondo”.
Ogni giorno siamo chiamati a risorgere e a far risorgere, ogni giorno siamo chiamati a far rotolare quelle pietre sepolcrali che schiacciano la nostra vita e la vita dell’umanità. Nel Cristo morto e risorto, come dopo il diluvio, Dio stende di nuovo e in modo definitivo il suo arcobaleno, la sua alleanza. Questo nuovo patto che Dio stabilisce con l’umanità e con l’intera creazione porta con sé un imperativo volto all’uomo, quello di non spargere il sangue fraterno. Se noi non osserviamo il precetto di pace che ci fa proibizione di spargere il sangue fraterno, allora il diluvio ritornerà non più inferto da Dio all’uomo peccatore, ma prodotto dalle stesse mani dell’uomo.
Se noi oggi guardiamo il cielo non vediamo più l’arcobaleno, ma il fungo atomico: questo nuovo diluvio che avanza ogni giorno più e che sommerge ogni forma di vita. Se ci pensiamo bene, dobbiamo riconoscere che siamo in una condizione storica di diluvio: dall’alto di tutte quelle torri di Babele che ci siamo costruiti ogni giorno si riversa uno smog malefico che soffoca la vita e le impedisce di sbocciare e di crescere.
Sono più di 2000 anni che noi gridiamo al mondo che Cristo è risorto, ma che cosa è cambiato nella vita del mondo, che cosa è cambiato nella mia vita?
La grande macchina del mondo va a avanti per conto suo. Lo scenario della vita pubblica va avanti in modo desolante. I riti della violenza sanguinosa sono sempre lì, trasmessi ad ogni ora in tempo reale sotto i nostri occhi.
Un giorno diciamo: finalmente è finita! Forse un po’ di pace. Il giorno dopo siamo obbligati a dire: purtroppo non è ancora finita! E torniamo a dire le stesse parole e a fare gli stessi propositi.
Che senso volete che abbiano questi riti che noi celebriamo, se non siamo scossi fino nel profondo, fino a sentire che ci dobbiamo mettere in discussione.
“Diceva loro anche una parabola: Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo ad un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi”. (Luca 5,36-38)
Un ricco ebreo entrò in casa trafelato e rivolgendosi alla moglie esclamò: “Rebecca, in città si racconta un fatto terribile, e arrivato il Messia”. “Che cosa c’è di tremendo in tutto questo? – domandò la moglie – Penso che sia una cosa bellissima. Perché sei così sconvolto?” “Perché sono sconvolto? – esclamò l’uomo – Dopo tutti questi anni di fatica e di sudore abbiamo finalmente raggiunto l’agiatezza. Possediamo mille capi di bestiame, i nostri granai sono pieni di grano e i nostri alberi carichi di frutti. Ora dovremo dare via tutto e seguirlo”.
“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri… e seguimi”. (Matteo 19,21)
“Eliseo prese un paio di buoi e li uccise, con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio”. (Primo libro dei Re 19,21)
Il segno
Questo è l’unico segno che rende credibile l’annuncio della risurrezione; l’unico segno per dire che la risurrezione non è una favola a tutti coloro che ogni giorno fanno l’esperienza della morte: “lo riconobbero allo spezzare del pane”.
La riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II ha riportato l’altare in mezzo all’assemblea, non come l’ara del sacrificio, ma come la tavola del banchetto. E a questa tavola tutti sono invitati ad accomodarsi. Non ci sono segnaposti, non ci sono buttafuori. A questo banchetto l’uomo vale per quello che è, non per quello che fa. Al centro quindi dovrebbe ritornare questa tavola, questo banchetto, dove attraverso i segni che compiamo ci viene data anche la definizione della società nuova, del regno di Dio:
- Una società riconciliata attraverso il perdono reciproco.
- Una società in ascolto, non solo della parola di Dio, ma di tutti, buoni e cattivi.
- Una società dove si spezza il pane per condividerlo, in modo che tutti abbiano la loro parte.
- Una società nella quale non solo si parla della pace, ma si opera la pace.
“Fate questo in memoria di me”. Questa è la missione, questa è la vera rivoluzione: una società dove la reciproca solidarietà dice che l’amore è possibile, che la pace è possibile, che la gioia è possibile. Dove tutti sono impegnati a preparare la festa l’uno per l’altro. La missione è costruire una società dove si prepara il banchetto al quale tutti sono invitati come fratelli. Ecco l’eucaristia collocata fuori dal “tempio di pietre”, messa al suo posto come al centro del creato, dove noi siamo chiamati a preparare il banchetto della vita per l’intera umanità.
Il miracolo è possibile
Termino con un episodio che prendo dalla storia della resistenza. Siamo negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. In un paese della provincia di Parma, un gruppo di camicie nere uccide spietatamente, davanti agli occhi della madre, un giovane che probabilmente fa parte di una formazione partigiana. Non passa molto tempo, la situazione si rovescia. I partigiani arrivano a catturare l’autore di quell’orribile assassinio, lo portano davanti alla madre che ne era stata l’impietrita testimone, come per offrirlo alla sua vendetta. Decida lei come pareggiare i conti. Il paese è in subbuglio, tutti pensano che finalmente sarà fatta giustizia. Ma Adalgisa Corradini, questo è il nome della donna, e già colma del suo dolore. Un’altra morte non arriverebbe a placarlo. Neppure la morte di chi le ha tolto il figlio. Adalgisa si fa strada fra la folla che assedia l’autore del delitto. Guarda negli occhi l’assassino di suo figlio. “Ce l’hai una madre a casa che ti aspetta? Se ce l’hai, torna da lei”. I partigiani restano sbigottiti, ma nessuno osa contrariare il comportamento fermo di Adalgisa e il suo singolare verdetto. Forse è solo così che si può cambiare strada, con un gesto imprevedibile, per certi versi illogico, che non mira a pareggiare i conti, ma spezza la catena della vendetta.
Credere nella risurrezione significa accettare l’impossibile come programma di vita; significa credere che la realizzazione di un mondo nuovo, già ora e qui, è possibile; significa credere che l’amore è più forte della morte (di qualsiasi morte).
Noi siamo come dei semi di risurrezione sparsi ogni giorno sulle macerie della vita. Se come il seme accettiamo di morire (donare) rendiamo possibile la trasformazione del deserto in giardino. Siamo come una manciata di lievito gettata nella farina: dobbiamo accettare di scioglierci per rendere possibile a quella pasta di diventare pane, si tratta di far gustare all’altro il sapore della vita.
“La tradizione non sta nel mantenere la cenere, ma nel trasmettere la fiamma”. Così diceva Tommaso Moro. E padre Turoldo commentava: “Nessuno viva un solo giorno col fuoco spento. Ognuno scelga la sua parte di combattimento ogni giorno, ognuno renda la sua testimonianza che Cristo è vivo, che il povero è vittorioso, che ogni uomo è libero”.