«Andate in tutto il mondo, proclamate il Vangelo a ogni creatura»
è la consegna ultima che Gesù ha lascato alla Chiesa (Mc 16, 15).
Da qui nasce e parte la vocazione missionaria.
Oggi la Chiesa ha per confini il mondo.
Molte vocazioni alla vita religiosa, sacerdotale e laicale sono nate e sorgono all’insegna dell’ideale missionario. Tale prospettiva è coltivata nel tessuto delle parrocchie, del contesto delle famiglie e dell’associazionismo. Il rientro dei missionari, poi, diventa occasione per testimoniare il loro vissuto e tenere viva questa idealità. Un legame di fede e di stretta collaborazione dei “gruppi missionari” dà visibilità e concretezza alla dimensione universale del Vangelo.
Anche p. Dehon ha vissuto questo clima missionario fin da adolescente. Leggeva volentieri gli «Annali della Propagazione della fede e della s. Infanzia». Si sentiva attirato «dall’unione con nostro Signore e dallo zelo per la salvezza delle anime… Desideravo donarmi totalmente. Volevo essere religioso e missionario».
Anche da giovane, nei suoi viaggi di turismo, osservava e raffrontava quanto vedeva in chiave religiosa. Quando erano in corso i lavori per il canale di Suez, si rallegrava perché esso diventava una rotta che accorciava il viaggio alle missioni in Asia.
Prospettiva missionaria
L’apertura alle missioni si fa concreta con l’avvio del suo nuovo Istituto. Chiarite con Roma le incomprensioni che avevano portato alla soppressione della congregazione (1883), subito riabilitata l’anno seguente, scrive al suo Vescovo: «Presso di noi si coltiva sempre il desiderio delle missioni … Potrebbe forse riferirlo a Roma. Infatti a Roma sono molto ben viste le congregazioni che chiedono le missioni». E l’anno seguente annota nel diario: «Oggi ho spedito a Roma la domanda per ottenere una missione all’estero».
Questo desiderio missionario si sviluppa quando la congregazione è ancora confinata dentro la diocesi, quindi nel suo sorgere. Il vescovo vuole che tale rimanga e ostacola ogni tentativo di espansione, per lo meno al di fuori della Francia. E di questo parere rimane fino al “Decreto di Lode” di Roma, che riconosce la congregazione di diritto pontificio (1888). Da questo momento il Fondatore è libero di decidere, in quanto è superiore generale del suo Istituto.
Primi passi
Dehon intende dare alla sua congregazione una dimensione internazionale, convinto che, se limitata alla sua diocesi e alla sola Francia, sarebbe rimasta con un futuro incerto. Per questo, provocato dalla politica francese ostile agli istituti religiosi, mette una base in Olanda quale presidio in caso di espulsione. Diventa il primo passo di graduale espansione in Europa e nel mondo.
Pur avendo nei primi anni solo 25 sacerdoti e un intenso lavoro apostolico, P. Dehon decide di affrontare l’avventura missionaria. L’occasione giunge su proposta del fondatore degli “Oblati del divino Amore” di collaborazione in Ecuador. Invia due religiosi, ma il tentativo dura solo pochi anni, per l’opposizione delle autorità civili. Non si dà per vinto e chiede a Roma la presenza in Congo (1897). Inizia la grande avventura missionaria che diventerà un orientamento apostolico stabile della Congregazione.
Là dove più urge il bisogno
Che cosa ha guidato p. Dehon nella scelta dei luoghi di missione? La spinta evangelica e i contesti più abbandonati: far conoscere il Vangelo e promuovere i popoli in via di sviluppo. Parla dei «paesi più disagiati» come clima e condizioni umane, per realizzare meglio lo spirito della vocazione dehoniana: l’avvento del regno, la «professione d’immolazione», lo spirito di riparazione. Benché si senta «il più piccolo dei fondatori» esprime il suo anelito a «conquistare il mondo a Gesù Cristo … Amo ardentemente nostro Signore e vorrei promuovere il regno del Sacro Cuore».
Le condizioni in cui si sono trovati a lavorare i missionari, soprattutto del Congo, sono proibitive. Molti sono stati vittime del clima malsano: «I nostri morti del Congo, del Brasile, dell’Ecuador! Al Congo diciassette hanno dato la vita per la conversione delle popolazioni indigene. Un santo cardinale mi diceva che il solo fatto di andare laggiù, esponendosi al pericolo di una morte imminente, meriterebbe loro la palma del martirio».
Riflettendo alla luce del carisma e della spiritualità dell’Istituto, annota: «È evidente che il Sacro Cuore di Gesù sarà meglio onorato, se lo zelo per la sua gloria si esercita in condizioni difficili, come nelle lontane missioni. Si compie allora un atto di abnegazione ed è una grande prova di amore verso nostro Signore».
Di fronte alle difficoltà di salute e a molteplici decessi, non recede, anzi chiede un incremento di vocazioni per poterle inviare nelle missioni: «Siamo ben provati in Congo. Il p. Farinelle è morto. Molti ritornano. Dove troverò degli apostoli per tutte le anime che là attendono? La messe è matura. Occorrerebbero venti preti in più … Non desideriamo solo il numero, ma soprattutto il fervore e la generosità».
Nei quattro continenti
Le presenze dehoniane nel mondo sono diventate molte nel tempo. Alla sua morte, p. Dehon poteva vantare di avere missionari in undici nazioni estere di tre continenti, esclusa l’Europa dove era insediato in quasi tutte le nazioni della parte occidentale.
Il cammino è proseguito intenso fino a tutto il ‘900, assicurando lo sviluppo anche vocazionale sul posto. Ora ci sono identità locali autonome che, a loro volta, continuano l’azione missionaria.
Anche sparsi per il mondo, p. Dehon ha sempre voluto che le esigenze apostoliche non distogliessero dallo spirito e dal vissuto della vita religiosa, in particolare la fedeltà alle pratiche di pietà e alla fraternità. Niente cani sciolti, ma coordinazione e animazione concordata, nel rispetto dei momenti importanti del vissuto comunitario.
Pur consapevole della necessità di dover adattare gli orari delle comunità, chiedeva che la prima preoccupazione di ogni missionario fosse la fedeltà a Cristo e alla vita soprannaturale: «Quando sono in sede, i missionari vivranno la vita di comunità, facendo insieme gli esercizi religiosi prescritti dalle nostre regole. Questo punto è essenziale, sia per la vita interiore che per la benedizione di Dio sul loro ministero apostolico».
Non sono raccomandazioni fuori luogo, dato che la fatica dei viaggi, le distanze considerevoli, gli impegni imprevisti possono sempre essere, ovunque, un ostacolo a dar forma a una autentica vita comunitaria.
La prima missione infatti non è il fare, ma il testimoniare, in qualsiasi contesto ci si trovi. Uno stile fraterno, condiviso, attento e concreto nel cogliere i bisogni e le aspirazioni delle persone, soprattutto se molto provate dalla vita, diventa ‘missione’ nello spirito dehoniano. La spiritualità proposta da p. Dehon è quella del cuore misericordioso che batte in sintonia con quello di Cristo apostolo del Padre.
Orientamento apostolico imprescindibile
All’ultimo anno di vita, l’anziano fondatore fa il bilancio della sua vita. La prima cosa che annota nel diario è il riferimento alla idealità missionaria che aveva coltivato da sempre: «L’ideale della mia vita, il voto che formulavo con lacrime nella mia giovinezza, era di essere missionario e martire. Mi sembra che questo voto si sia adempiuto. Missionario lo sono con i cento e più missionari che ho in tutte le parti del mondo». Martire lo è stato per le molteplici prove, di varia provenienza, che ha vissuto nella sua lunga esistenza.
La Congregazione di p. Dehon ha riservato e riserva tuttora un posto di privilegio alla presenza missionaria nel mondo, come attestano le Costituzioni: «L’attività missionaria è per p. Dehon una forma privilegiata del servizio apostolico» (Cst 31).