“Lo Spirito quando abita in un uomo non lo lascia, dal momento in cui quest’uomo è divenuto preghiera, perché lo stesso Spirito non smette di pregare in lui”.
Isacco di Ninive (Discorsi ascetici)
La preghiera: opera dello Spirito
(testo di Pierantoni Beppe sci)
Se ogni approfondimento esistenziale, ogni presentimento del mistero di fronte ad episodi di amore, di bellezza, di meraviglia, di morte tende alla preghiera , nel senso specifico cristiano perché vi sia preghiera occorre che si attui un rapporto propriamente personale con il Tu divino, col Dio vivente. Dopo averlo chiamato “Dio”, dopo averne scoperto i suoi “titoli” più probabili ma generici (verità, pace, misericordia, luce, amore, vita …) dargli del “Tu” significa accettare un rapporto diretto, faccia a faccia, per impegnarsi nella più rischiosa avventura relazionale.
Questa relazione con Dio può assumere tante forme. Può essere un ascolto silenzioso, o un grido angosciato, una lode o la contestazione di Giobbe. Comunque, la disposizione necessaria e sufficiente per pregare, pur sempre segnata da dubbi e incertezze, è intuire che non siamo soli, sperduti e assurdi davanti all’enigma, al vuoto e all’orrore, e che c’è un Altro a cui abbiamo accesso, immediatamente, attraverso la nostra fede o almeno con la nostra disperazione e il nostro bisogno.
La preghiera allora, in quanto espressione di fiducia o di bisogno, potrebbe sembrare capace di attirare Dio verso di noi. Ma, se è vero quel che S. Agostino afferma, cioè che ”Dio è più intimo a noi di noi stessi”, allora il fine della preghiera è di avvicinare noi a Dio, di corrispondere finalmente al desiderio divino di comunione con noi. La preghiera, dice tutta la Tradizione cristiana, è opera di Dio, non dell’uomo. A noi di agognarla, cercarla, concederci; a Dio di realizzarla in noi stessi. Primo attore infatti non è l’orante, è lo Spirito che prega in lui.
Fa parte essenziale di un cammino spirituale imparare a pregare, dove la preghiera è intesa come educazione ad ascoltare lo Spirito. Colui che in noi sa pregare è lo Spirito.
“Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli (lo Spirito) intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26-27). È lo Spirito che intercede per il credente secondo i desideri di Dio (Rm 8,27)… è luce, memoria, aiuto e via a tutto ciò che Gesù ha detto (cf. Gv 14,28). Ed è ciò che in noi trasforma lo sguardo che rivolgiamo alla realtà con la sua illuminazione.
Nella preghiera, scopriamo che il desiderio di Dio in noi è più importante e profondo di ogni nostro desiderio. Se le nostre richieste paiono spesso rimanere inesaudite è perché noi non ci lasciamo convertire dallo Spirito, il solo capace di farci apparire ciò che è buono agli occhi di Dio. È questo Spirito che, prendendo a rimorchio il nostro cuore, lo può volgere verso Dio, chiamandolo“Abba, Padre” con gemiti filiali altrimenti inespressi e, per noi creature ancora carnali, inesprimibili (cfr. Rom 8,15; Gal 4,6). Nello Spirito assaporiamo le cose di Dio e cominciamo a convertirci ad esse. E così piano piano noi non tentiamo più di modificare il volere del Padre e di piegarlo alla nostra volontà: siamo noi che veniamo cambiati.
Lo Spirito si unisce al nostro spirito e così fa della nostra vita stessa una preghiera. Ci saranno ovviamente dei momenti esplicitamente dedicati all’orazione. Ma tutta la vita diverrà culto gradito a Dio (Rm 12,1).
Cosa significa pregare?
La preghiera non è quindi un moto delle labbra, accompagnato anche dalle migliori intenzioni.
È un movimento del cuore, cioè di tutto l’essere umano. È un grido de profundis, dello Spirito in noi, che sale dal baricentro nascosto del nostro essere personale, che la bibbia chiama cuore, ordinariamente trascurato nella vita di tutti i giorni e raramente emergente a livello della nostra coscienza. Perché, è triste dirlo, viviamo quasi sempre del tutto alienati nei sensi esteriori, e amiamo perderci nelle emozioni e impressioni fuggenti che ci provocano e incuriosiscono. Quando ci sforziamo di scendere ad un livello più profondo, deviamo di solito verso la dimensione astratta del logico, del razionale. Lasciamo il nostro cuore, emarginato, a sonnecchiare. E finché dorme il cuore, appesantito dalle nostre pre-occupazioni e piaceri, invano cercheremmo di pregare.
L’immaginazione continuerà a produrre le sue distrazioni irrobustite dalle fantasie trasgressive o idealistiche introdotte consapevolmente dalla nostra coscienza, il sentimento religioso rimarrà tentato di scivolare in sentimentalismo emotivo, l’intelligenza, impegnata a fare ordine nel nostro caos costituito, continuerà a produrre idee chiare e distinte congelando la preghiera ben al di qua di qualsiasi movimento interiormente vitale … tutte cose ben conosciute!!! Tutte queste facoltà umane pure utili non sanno né possono portare frutto senza l’apporto del cuore che le utilizzi secondo lo Spirito.
Questo Gesù ce l’ha spesso rimproverato: il nostro cuore, ci diceva, è indurito, cieco, chiuso, segnato da pregiudizi e dinamiche di difesa suggerite dall’orgoglio. È lento e pigro a risvegliarsi, perché giace nel buio di una sonnolenza che ricorda la morte. È appesantito da preoccupazioni e ansietà, o dal piacere. Necessiterebbe, secondo le parole dei profeti, di essere circonciso, se fosse possibile.
Ritrovare la strada verso il proprio cuore è forse il compito più importante e l’avventura più appassionante: nell’esplorazione del suo cosmo interiore, in gran parte a lui sconosciuto, l’essere umano è un pellegrino alla ricerca del suo io, definito biblicamente “cuore”.
È il cuore a costituire la nostra realtà più profonda, quello siamo noi, nient’altro.
Ed è là che Dio ci attende per incontrarci, ed è soltanto a partire di là che noi possiamo incontrare gli altri. Ecco perché, forse, dobbiamo confessare che ancora non vi siamo veramente giunti, se così povera ed occasionale è la nostra preghiera e così superficiali sono le nostre relazioni umane.
Il nostro cuore, infatti, è in uno stato di preghiera che attende di essere scoperto e attivato: si tratta di una grazia insita nel nostro battesimo che ci ha costituiti figli di Dio. Lo “stato di grazia” significa infatti, a livello del cuore, “stato di preghiera”, contatto vitale e continuo col Padre che col Suo Spirito ha posto la Sua dimora nel cuore delle Sue creature.
Noi portiamo questo tesoro interiore sepolto sotto una valanga di detriti, che sono le preoccupazioni e le priorità di questa vita troppo chiusa in un orizzonte secolare, con una ben scarsa o nulla consapevolezza del dono battesimale. Ogni metodo di preghiera non può avere altro scopo che di renderci consapevoli di ciò che abbiamo ricevuto come grazia, e di insegnarci a sentire e partecipare nello Spirito Santo alla preghiera che sale dal nostro intimo. Questo stato di preghiera deve salire e proporsi alla nostra evidenza e collaborazione, coinvolgendo sempre di più tutte le facoltà, spirito anima e corpo, “tutto il cuore, tutta l’anima, la mente e le forze” (Dt.6,4-5). La preghiera è un cuore che trabocca nello Spirito, è la sua sovrabbondanza.
La prima condizione per pregare.
La condizione perché la preghiera trabocchi è che il cuore si desti. Ogni via di preghiera deve quindi mirare a far ritrovare un contatto col proprio cuore perché possa ridestarsi, risorgere. Questo risveglio è “ritornare in sé”, è rinascere nel nostro essere fatto ad immagine divina (vedi il “figliol prodigo” che, a causa del naufragio della sua indipendenza e mosso dai bisogni impellenti, “rientra in sé stesso” e si muove a cambiare… : Luca 15).
In questi tempi in cui si viaggia tanto, è importante ricordare che il viaggio più difficile è quello interiore. Questa esplorazione della propria interiorità esige coraggio: il coraggio della solitudine, del silenzio, della riflessione, del guardarsi dentro criticamente, del porre in relazione i vissuti intimi con gli avvenimenti quotidiani… È il coraggio della luce, della verità, della trasparenza che possono rivelarci aspetti di noi indesiderati. La paura si affaccia e può divenire così la grande nemica del viaggio interiore, che esige fiducia. Il coraggio di osare la propria interiorità conduce la persona ad avere una certa saldezza e stabilità, fondate su di una profondità, come capita ad un edificio di profonde fondamenta. Il coraggio di invocare l’aiuto e la compagnia di Dio in questo viaggio che è insieme interiore ed esistenziale.
La preghiera allora è abilitazione a vivere in sintonia con il Dio che ci abita nel segreto. È progressiva capacità di vegliare, nel nostro agire, liberando il cuore dai suoi ostacoli e ascoltandolo là dove già prega, partecipando quindi a questa preghiera (gemito, anelito, desiderio, grido, bisogno, sete …) affinché la voce dello Spirito divenga in noi la nostra propria preghiera. Attesa e accoglienza di Dio nel presente. Emerge così lo Spirito, prevalendo sui rumori che l’avevano neutralizzato, segnalandosi con le sue luci e i suoi doni, portando con sé commozione e lacrime interiori, e un bisogno di raccoglimento e silenzio che danno voce e parola a tutto ciò che viviamo.
Pregare così è raggiungere un contatto con la preghiera che lo Spirito eleva dagli abissi del suo stesso Cuore, partecipiamo della preghiera di Gesù, il Figlio.
Abbandonata l’illusione di essere l’attore principale della sua stessa preghiera, chi prega può abbandonare i propri pensieri e le pie fantasie, sa contrastare il chiacchiericcio interiore e interrompe le sue inutili parole, permettendo a se stesso di raccogliersi nella relazione che salva, liberato dalla solitudine del suo io. Così l’essere umano in preghiera può divenire progressivamente puro ascolto di Dio e puro sguardo contemplativo dell’opera divina in se stessi e nella propria storia.