Dopo “L’equilibrista” mi era nato il desiderio di leggere qualcos’altro di Christian Bobin.
Il caso (che caso non è!) vuole che un’amica mi regali “Abitare poeticamente il mondo”.
Altro titolo intrigante, almeno per me.
E, ancor prima di iniziare a leggere, nascono le prime riflessioni …
Abitare
Mi vengono in mente quelle case sempre in perfetto ordine e super pulite, che quando entri ti chiedi se devi toglierti le scarpe o se devi sederti in punta sul divano, per non sgualcirne i cuscini. Poi penso a casa mia, che così ordinata non è: una “casa vissuta” – mi dicono, nella speranza di non offendermi – la cui porta però è sempre aperta per chiunque bussi.
Poeticamente
La poesia. Me ne sono nutrita durante tutti questi mesi di pandemia e ora non posso più farne a meno: alimenta ogni mia giornata.
Il Mondo
Non un concetto astratto, non qualcosa di lontano da me: il mondo siamo noi e il nostro quotidiano. Il mondo è l’altro, chiunque ci è dato di incontrare.
Abitare poeticamente il mondo – mi dico – è vivere, è abitare il presente: le relazioni, gli sguardi, le nostre parole.
Il libro mi incuriosisce.
Mi chiedo: cosa vuol dire per l’autore abitare poeticamente il mondo?
Lo riassume bene Sara Costanzo nella sua prefazione:
“La poesia è un atteggiamento, una pratica di relazione con il mondo, che consente alle cose, alle persone, agli eventi, di mostrarsi a noi, come se nascessero ogni volta”
Per usare le parole stesse di C. Bobin: “Credo che, in fondo, sia questo la poesia: un’arte della vita”.
Se davvero permettessimo alla poesia di diventare il nostro modus vivendi, se le lasciassimo accendere in noi una sensibilità tutta nuova, che ci consenta di cogliere quella “vibrazione che abita la vita”, allora potremmo fuggire da ciò che ingabbia il nostro pensare e il nostro vedere e che non ci permette più di stupirci, di meravigliarci della bellezza fuori e dentro di noi.
“Il mondo è pieno di visioni che attendono gli occhi. Le presenze ci sono, ma ciò che manca sono i nostri occhi” – scrive Bobin, invitandoci ad avere uno sguardo diverso, più partecipativo, su quanto ci circonda e persino su quanto ci accade, positivo o negativo che sia.
“Abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo”
Se abituassimo i nostri occhi a vedere poesia ovunque, in ogni luogo e in ogni momento della nostra vita, la poesia ci trasformerebbe o, più semplicemente, ci renderebbe umani. Infatti:
“Chi impara a sentire il rapimento e la radianza delle cose, genera a sua volta radianza e rapimento e provoca destini.
Si tratta solo di un modo umano di abitare il mondo. Perché dire abitare poeticamente il mondo o abitare umanamente il mondo, in fondo è la stessa cosa”.
L’autore ci invita a mettere in campo uno sguardo “contemplativo”, a prestare attenzione anche alle cose che ci sembrano insignificanti, semplici, povere, a ciascuno dei nostri gesti, a ciascuna delle nostre giornate, perché è nell’ordinario che si nasconde lo straordinario, è nella realtà, in quello che siamo, che possiamo trovare la luce per reagire al buio dentro e fuori di noi.
“Contemplare è un modo di prendersi cura” – dice Bobin.
Proprio come una madre che, rimboccando il lenzuolo accanto al viso del proprio bimbo addormentato, “è come si prendesse cura di tutto il cielo stellato (…). Lo copre perché non abbia freddo e placa tutto il nero che c’è tra le stelle. Un gesto talmente semplice che ha risonanze infinite”.
Bisogna tornare alle cose vive e vere e lasciare che le cose vengano a noi, accordando loro il tempo che richiedono perché – come dice Bobin – “Dopotutto i miei occhi mi bastano per vedere la farfalla, non ho bisogno che qualcuno me la mostri”.